• Nato in Città Alta

Ti chiameremo Ske

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Città Alta è sempre stata un borgo. Medievale e meraviglioso, ma sempre un borgo.

All’interno delle Mura ci conoscevamo tutti e si viveva a stretto contatto ogni minuto della giornata. Un gomito a gomito che, nonostante lo spirito orobico pervadesse ogni anfratto, ci portava ad essere un popolo d’amore piuttosto che un popolo di libertà, come seppe spiegarci magistralmente Luciano De Crescenzo nel suo “Così parlò Bellavista”.

E in un borgo come si deve si danno i soprannomi alle persone. Poi, quale fosse l’origine dell’appellativo che ti rimaneva appiccicato addosso tutta la vita sovente restava un mistero. Al contrario, c’era sempre un momento preciso in cui un individuo cambiava nome per tutti e per il tempo a venire.

Come quando un mio amico d’infanzia fu soprannominato Cibo. E non perché fosse un raffinato gourmet, tutt’altro, visto che si ingozzava di Fieste e Girelle come la maggior parte di noi. Fu la sua iscrizione alla scuola alberghiera di San Pellegrino a scatenare la nostra fervida ed agile fantasia. Da quel giorno lui divenne Cibo e, ancora oggi, lo chiamiamo così.

Perché si fosse iscritto all’Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione non lo sapeva nemmeno lui. Tant’è vero che, terminato a fatica il primo quadrimestre, passò a ragioneria. Ora Cibo è un affermato commercialista e purtroppo insiste nel mangiare porcherie.

Lo sport, il cinema, i fumetti, ogni argomento era fonte potenziale di epiteti che sarebbero rimasti scolpiti nella pietra. Con una regola su tutte: un soprannome che si rispetti mai e poi mai deve essere l’abbreviazione del nome vero e proprio. Non potrà mai essere Gianni per Giovanni o Edo per Edoardo, deve essere un qualcosa che va “sopra” al nome, appunto. Deve nascere da un’intuizione figlia della creatività e qualche volta ci sta anche un pizzico di cattiveria.

Un soprannome davvero incomprensibile fu Virén. Dal mezzofondista finlandese Lasse Virén, un atleta straordinario capace di conquistare quattro medaglie d’oro olimpiche, nei 5.000 e 10.000 metri piani, a Monaco di Baviera nel 1972 e a Montréal nel 1976. Quale fosse il legame tra l’atletica e il ragazzo così soprannominato non si è mai saputo. Mai visto correre, al massimo lo vedevi girare in motorino. Non aveva nulla dei “Flying Finn” nati nella terra dei mille laghi ma forse, chi lo sa, lo soprannominarono Virén proprio per contrapposizione.

Passavano gli anni, si cresceva, ma questo rito non accennava a sparire. Uno dei miei migliori amici si chiamava Stefano ma da piccolo iniziammo a chiamarlo “Scafe” o “Scafenì”. Il suo è l’unico caso che io ricordi in cui il soprannome fu cambiato “in corsa”. E non è un modo di dire. Quando ci accorgemmo che correva più veloce di tutti, anche di quelli più grandi di lui, Stefano divenne Ske – o meglio, “lo Ske” – perché era davvero una scheggia e a giocare a pallone, senza ombra di dubbio, tra tutti noi era il più dotato.

Il suo scatto bruciante nei primi metri di corsa mi ricordava quello di Paolo Rossi, con la maglia del Vicenza, in area di rigore. Nelle più animate conversazioni da bar, qualcuno sosteneva che, nei primi tre metri, lo Ske fosse più rapido persino di Karl-Heinz Rummenigge. Detto “Kalle”, per restare in tema. Anche se Kalle è la contrazione di Karl-Heinz, quindi come soprannome non vale.

Talvolta i soprannomi scaturivano spontanei da qualità atletiche evidenti, come per lo Ske, altre volte l’origine poteva essere il modo di vestire. Come quando un ragazzo magrolino e sempre in disparte di cui adesso mi sfugge il nome si presentò all’oratorio del Seminarino indossando un’improbabile giacca di renna con le frange sulle spalle. Tra l’ilarità generale, in un attimo gli fu appioppato il nome di Tiger, come Tiger Jack, l’amico pellerossa di Tex Willer.

Tiger era un ragazzo introverso. Chissà, magari decise di indossare quella giacca solo per sentirsi più sicuro e vincere la sua timidezza. Il risultato fu ahimè un disastro, la sua scelta generò solo scherno e risate. D’altronde, senza bisogno che ce lo ricordi Pasolini, i ragazzi sono crudeli ma non sanno di esserlo.

Chi invece venne soprannominammo a ragione “L’uomo più forte del mondo” fu il signor Salvatore. Un vero energumeno che riusciva a spostare un’automobile con la sola forza delle mani. Qualcuno diceva che una volta mangiò un bicchiere di vetro per scommessa.

Non avendo la possibilità di consultare il Guinness dei primati, per noi Salvatore era davvero l’uomo più forte del mondo e non aveva rivali in tutto il pianeta. D’altronde vivevamo in Città Alta, un mondo magico dove tutto era possibile. Tra quelle strade poco frequentate dal sole, la realtà e la fantasia si abbracciavano strette fino a confondersi. Al pari di un soprannome che va a rimpiazzare un nome proprio e non sai più quando è nato e perché. Come lo Ske.