- Nato in Città Alta
L’evasione da Sant’Agata
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Ad aprile le giornate si fanno più lunghe, il sole tramonta tardi e c’è luce fina all’ora di cena. Bisogna approfittarne.
Soprattutto se hai a disposizione un luogo ideale dove applicarti con serietà e dedizione alla cosa che ami di più al mondo: dare due calci al pallone. Nel giardino sul retro del Ristorante Da Mimmo mio padre aveva allestito un piccolo parco giochi per i figli dei clienti e in quel momento non c’era nessuno. Era tutto per me.
Destro e sinistro, destro e sinistro… mi stavo esercitando nel palleggio, come avevo visto fare ai ragazzi più grandi al campo dell’oratorio e a qualche campione, ripreso durante l’allenamento, sul vecchio televisore della cucina. L’intento era chiaro: superare il mio record personale di 35 palleggi, da un piede all’altro, senza far cadere il pallone.
La mia attenzione era tutta sulla palla quando, con la coda dell’occhio, mi sembrò di vedere qualcuno che lanciava una corda al di là del muro del carcere di Sant’Agata, adiacente al nostro parco giochi. Saranno sicuramente due operai intenti a lavorare nel cortile.
Destro e sinistro, destro e sinistro… All’improvviso una sirena si era messa a strillare più forte che mai. È l’allarme del carcere e quegli strani operai iniziarono a correre a perdifiato verso il monastero abbandonato del Carmine. Passarono pochi secondi e vidi le guardie correre nella stessa direzione. Forse stanno girando un film.
Ero stranito, non capivo cosa stesse succedendo, ma ero anche un po’ arrabbiato. Un attimo di distrazione e il pallone aveva toccato terra: record sfumato. Peccato, perché con i palleggi ero già a 33. Ripresi il pallone finito sotto l’altalena per proseguire la sfida con me stesso quando vidi arrivare Mimmo, mio padre. Veniva a prendermi per portarmi con sé al corpo di guardia del carcere.
Tutte quelle uniformi e quegli agenti mi intimidirono, ma nessun problema, con me c’era papà. Ad attenderci, nel suo ufficio grande e disadorno, il Maresciallo capo delle guardie schiacciò nel posacenere la sigaretta che stava fumando. Con la dolcezza che si conviene a un bambino mi chiese cosa avessi visto del tentativo di evasione. Guardai mio padre dubbioso e Mimmo mi esortò a parlare. Preso com’ero dalla mia performance balistica, non avevo davvero capito cosa fosse successo. Allora pensai di dire quello che mi sembrava più probabile: forse erano due operai che scendevano da una scala dopo aver riparato un lampione? Il maresciallo e mio padre si misero a ridere e mi spiegarono cosa fosse successo realmente.
A dir la verità non ero né turbato né spaventato. Fuga da Alcatraz non era ancora uscito al cinema e io quelle scene le avevo viste solo su Topolino, con la banda Bassotti pronta all’ennesima evasione per riprovare a svaligiare il deposito di Zio Paperone.
Questa era la Città Alta di cinquant’anni fa, dove un luogo di sofferenza stava accanto a un parco giochi con la giostra e l’altalena. Dove la vita di un bambino che rincorre spensierato un vecchio pallone di cuoio sfiora quella di un carcerato che si illude di riconquistare facilmente la sua libertà.
Una cosa è certa, la mia passione per il pallone era tale che nulla poteva distrarmi. E in fondo è ancora un po’ così.