• Nato in Città Alta

Gentile, come il suo nome

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È inevitabile. Quando sei piccolo e cresci in un ristorante, da mattina a sera incroci il mondo dei grandi.

Un universo misterioso quello degli adulti, attraente e spesso incomprensibile, dove è subito chiaro che si “sbaglia da professionisti” per dirla alla Paolo Conte.

Oggi i bambini non trascorrono più il loro tempo nei luoghi di lavoro dei genitori ed è giusto così, ma negli anni Sessanta, soprattutto in un ristorante di famiglia, era la norma. Casa e bottega, con gli affetti familiari che inevitabilmente si intrecciano con le relazioni di lavoro. Le distanze si accorciano e puoi affezionarti anche a figure di passaggio, non per questo meno importanti.

È stato così anche per me. Affascinato sin dalla più tenera età dalla figura istrionica del cuoco, un po’ alchimista e un po’ prestigiatore, legai subito con lo chef Ilario Gentile, per tanti anni alla guida della brigata in cucina del ristorante Da Mimmo.

Ilario era un uomo esile, dal viso scavato e lo sguardo malinconico, a cui per celia o paradosso era stato affibbiato il soprannome di Ciccio.

Non lo vidi mai senza la sua “toque” bianca, alta e inamidata. Ben lontano dai Cracco e Barbieri che dilagano oggi in tivù, Ciccio era misurato nei gesti, rapido ed essenziale in ogni suo movimento. Si destreggiava con grande abilità tra fuochi e padelle senza mai perdere la calma o alzare la voce coi sottoposti, anche il sabato sera o la domenica a pranzo, quando i coperti erano davvero numerosi.

Nato a Pizzo Calabro ma genovese d’adozione, il suo accento tradiva i tanti anni vissuti all’ombra della Lanterna. Un uomo di mare che lasciò presto la terra ferma per svolgere la sua professione sulle navi da crociera.

Era bellissimo ascoltare i suoi racconti di quando navigava per mari e oceani dai nomi esotici a me sconosciuti. Storie di onde alte come palazzi e di porti malfamati a cui era meglio non avvicinarsi. Erano gli anni in cui la domenica sera l’Italia intera si fermava per seguire le gesta di Kabir Bedi nel ruolo di Sandokan, la Tigre della Malesia, l’eroe senza macchia e senza paura protagonista dei romanzi di Emilio Salgari.

Ciccio, che per i suoi baffi sottili e ben curati io associavo a Yanez de Gomera, l’amico fidato di Sandokan, era capace di condurmi proprio là, dove l’acqua salata ha il colore del cobalto e la sabbia è sottile e bianchissima.

Io, bimbo vivace in perenne movimento ma inspiegabilmente inappetente, mangiavo solo quello che mi cucinava lui. Niente di particolarmente elaborato ma il suo risotto al pomodoro è ancora oggi la mia personale madeleine, capace di riportarmi in un attimo, con dolcezza e malinconia, alla spensieratezza di quegli anni. Ciccio se la cavava egregiamente anche con i dolci, preparava un’eccellente crema pasticcera che mi faceva assaggiare ancora tiepida in una tazza riservata a me.

Da lui ho imparato anche una discreta varietà di parolacce, ovviamente in genovese stretto: passatempo irresistibile per qualsiasi bambino. Ne intuivo solo vagamente il significato ma avevano una musicalità suadente e levigata, ben diversa da quelle che apprendevo dai camerieri bergamaschi, ruvide e taglienti. Del resto, in un ristorante come il nostro potevi ascoltare ogni genere di dialetto. Si viveva in un’autentica commedia dell’arte dove Capitan Spaventa e Peppe Nappa, Gioppino e Pulcinella, recitavano a soggetto nella stessa messinscena.

Che poi, a ben guardare, Da Mimmo è ancora così, anche se i dialetti regionali sono stati sostituiti dalle lingue di tutto il mondo.

Venne un giorno, purtroppo, in cui Ciccio si ammalò. Mio padre mi disse che si sarebbe presto assentato ma il mio eroe salgariano non era certo un uomo dalla resa facile. Continuò a lavorare nella cucina del ristorante ancora per diverso tempo, finché quel giorno da me tanto temuto arrivò. Se ne andò con un sorriso appena accennato, lasciandomi per sempre il ricordo del profumo del suo pesto alla genovese. Gentile, come il suo nome.