• Nato in Città Alta

Didi

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Didi è mio cugino. In realtà, lui si chiama Diego, proprio come me e altri miei cugini che, da tradizione familiare, hanno ereditato il nome da mio nonno materno. 

Quando eravamo piccoli, ad ogni appartenente all’esclusivo club dei “Diego” veniva affibbiato un nomignolo o un diminutivo. O addirittura, è il mio caso, un altro nome. In questo modo – grazie a Robi, Didi, Dodi, Dodo, Dino e altre fantasiose variazioni sul tema – potevamo giocare tutti insieme in cortile senza confonderci. 

Didi, che ancora oggi vive e lavora in Città Alta, ha due anni più di me. Una differenza d’età che, da bambini, fa sì che il minore impari dal maggiore tutto quello che serve a stare al mondo: le parolacce essenziali, trucchi e trucchetti per sfidarsi “a muro” con le figurine, senza escludere qualche piccola trasgressione su cui preferisco sorvolare.

Proprio come Zamora.

La maggior parte del tempo, però, la passavamo giocando a pallone nel giardino sul retro del ristorante. Come il sottoscritto, anche lui adorava il calcio e a dieci anni aveva già scelto il suo ruolo. Non poteva essere che il portiere, perché Didi sin da piccolo era irrimediabilmente attratto dal vivere in controtendenza. Era fatto così, amava fare quello che gli altri non volevano fare. 

Io tiravo con tutta la forza che avevo e lui si tuffava con le movenze feline del suo beniamino, il divino Ricardo Zamora, il più grande portiere di tutti i tempi. Prendeva posizione spavaldo sulla linea – con il berretto ben calcato sulla fronte, emulando l’estremo difensore ispanico anche in quello – pronto a deviare in calcio d’angolo qualsiasi siluro scagliato dal mio piede destro.

Quella porta l’aveva costruita lui, usando delle assi di legno regalate, dopo mesi di asfissiante corteggiamento, da un muratore che lavorava in un cantiere lì vicino.

Didi si cimentava con successo in qualunque lavoro manuale. Vien da sé che, a scuola, primeggiasse nella materia più pratica: applicazioni tecniche. Snobbata da molti di noi ma adorata da mio cugino. 

Alle medie avevamo lo stesso insegnante, un uomo burbero e severo, figlio integerrimo dell’Italia postfascista. Ai miei occhi era fin troppo dispotico e autoritario, ma sapeva riconoscere al primo sguardo gli alunni inclini alla sua materia. Capitava di frequente che coinvolgesse Didi nelle sue lezioni. Come quella volta in cui affidò a lui il compito di spiegarci il funzionamento del motore a scoppio. Radunò in circolo noi alunni davanti alla sua Fiat 600 con il cofano aperto e Didi ci illustrò con competenza il ruolo dei pistoni, da dove entrava la benzina, a cosa servisse la coppa dell’olio. 

Forse aveva preso spunto dai consigli del Gran Mogol sul Manuale delle Giovani Marmotte.

Un giorno di primavera, in cui il sole complottava con il cielo azzurro per impedirti di fare i compiti, Didi decise che nel giardino in cui giocavamo a “io sono Albertosi e tu sei Rivera” c’era poca erba. Tuffarsi su quel campo di terra e pietre gli aveva procurato troppe abrasioni sui gomiti e sulle ginocchia. Bisognava risolvere il problema alla base. 

Così si inventò una semina preceduta da un’aratura del terreno eseguita alla perfezione. Per irrigare quei pochi metri quadri e farli diventare un manto erboso degno di un giardino inglese, ideò un metodo che raccoglieva l’acqua piovana proveniente dalle grondaie del carcere di sant’Agata, adiacente al ristorante. Didi era riuscito a deviare l’acqua dai tubi che scendevano dal tetto convogliandola in una vasca scavata nel terreno.

Geniale. Da dove gli fosse venuta quell’idea restò un mistero. Perché Didi, in televisione, guardava solo il calcio e il Braccobaldo Show. Forse aveva preso spunto dai consigli del Gran Mogol sul Manuale delle Giovani Marmotte.

Nei giorni che seguirono alla realizzazione di quell’opera di ingegneria idraulica, degna di un ispirato Leonardo da Vinci, controllavamo in continuazione che spuntassero i primi fili d’erba, nella speranza che il nostro campo di gioco potesse far concorrenza a quello di San Siro. Ma quando finalmente fu pronto il “prato”, ci accorgemmo subito che quell’erba tanto agognata non cresceva se non a ciuffi, uno qui e uno là. 

Perdersi d’animo non faceva parte del suo carattere. Anche se, in questo caso, forse era meglio cambiare obiettivo e orientare la propria inventiva verso nuovi elettrizzanti progetti. 

Dalle delusioni della semina al fascino irresistibile della navigazione bastò un attimo. Un’altra pensata di Didi fu quella di costruire una zattera all’interno del chiostro del Carmine, abbandonato a sé stesso già da qualche anno. 

Chiodi e martello rubati dalla cassetta degli attrezzi di mio padre, assi di legno per creare la piattaforma, il volante di un’auto scassata come timone e un vecchio telefono nero in bachelite, non ricordo per far cosa. Eravamo pronti a issare le vele, anzi le lenzuola, per navigare verso Mompracem, con la ferma convinzione di unirci ai Tigrotti fedeli a Sandokan. 

Tutti i segreti della “doppietta”.

“Fare e costruire”, proprio come il nono volume dei Quindici, ma la vera passione di Didi erano i motori. Per cominciare costruì un go-kart in legno utilizzando le ruote di un carrello a cui aggiunse dei freni a mano per bloccarle alla bisogna. Ovviamente, questa sua prima creazione il motore non l’aveva, ma non avrebbe sfigurato al Soap Box Rally, la gara di macchine in legno che si disputa, ancora oggi, sul percorso del viale delle Mura. 

A quel tempo la via Boccola si poteva percorrere in discesa. E noi due, Niki Lauda e Clay Regazzoni, ci lanciavamo senza paura a bordo di quel bolide, con tanto di caschi ereditati da nostro zio Pino, vigile motorista, a cui ogni tanto cambiavano la divisa. 

Un giorno, proprio il nostro amato zio Pino, ci permise di lavargli la sua Fiat 500 nuova di zecca. Ci dette, malauguratamente per lui, anche le chiavi. Così, dopo aver reso fiammante la carrozzeria rosso Ferrari, Didi si mise al volante. Mi fece salire al posto del passeggero per spiegarmi come funzionava la “doppietta”, cioè il metodo con cui la 500 passava dalla prima marcia alla seconda, grazie a un’accelerata in folle. 

Eravamo nel giardino del ristorante e Didi, sicuro di sé, avviò il motore e ingranò la prima. Qualcosa andò storto e la doppietta non funzionò a dovere, o forse Didi non arrivava ancora ai pedali. La 500 fece un sussulto in avanti e in un attimo ci trovammo contro il muro. Lo schianto fu talmente rumoroso che un bel po’ di gente accorse allarmata per vedere cosa fosse successo.

Lo zio Pino, con le mani nei capelli, lanciava improperi in calabrese stretto. Quella volta, però, la multa non poteva darcela. Anzi, mia madre e la sua gemella, madre di mio cugino, se la presero con lui: aveva messo in pericolo l’incolumità dei loro pargoli. 

Il più grande esperto di motori Abarth del mondo.

L’epoca più gloriosa ed entusiasmante, per Didi, coincise con l’avvento dei Ciao e delle Vespe. Mio cugino “culo di gomma, famoso meccanico”, come cantava Francesco da Roma, era perennemente al settimo cielo. Non c’era giorno in cui i camerieri del ristorante non lo chiamassero per mettere mano alle loro motociclette: smontare il carburatore, pulire le candele, regolare il minimo. Magari “alzandolo un po’”, come cantava invece Lucio da Poggio Bustone. 

Oggi, Didi è l’apprezzato tabaccaio di Città Alta ma, appena può, si nasconde nel retro del negozio alle prese con ogni sorta di elettrodomestico portato da qualche suo affezionato cliente con la preghiera di aggiustarlo. Brontola un po’ ma so che si diverte. Certo, lui si ritiene il massimo intenditore di motori Abarth del pianeta e vorrebbe gli fosse riconosciuto, almeno un po’, tanto sapere. 

Nel suo capannone, lontano da occhi profani che comunque non apprezzerebbero tanta bellezza, trascorre il suo poco tempo libero riparando e rimirando le numerose vetture in suo possesso. 

Tra i suoi gioielli, c’è anche una Fiat 131 Abarth Rally, prodotta in soli 400 esemplari e difficile da reperire. Ogni tanto sfreccia, si fa per dire, tra le vie di Città Alta alla guida di questa sua creatura, che ama come una figlia, maledicendo le disposizioni di legge che ne limitano l’uso. Il rombo del motore suona graffiante e anacronistico, ma a lui piace proprio per quello.

Ogni tanto Didi gioca a pallone con la squadra dei “Leoni della Fara”, rigorosamente over 60, e fa ancora il portiere. La sua divisa è sempre la stessa, cappellino di lana in testa, jeans da buttare e scarpe con la suola di cuoio. Ormai si gioca sui campi sintetici e parare i palloni a terra non ha lo stesso gusto di prima, quando l’erba la faceva crescere lui, anche se a ciuffi e per un solo giorno. Ma se sei Ricardo Zamora non ci pensi, ti tuffi e basta.