• Nato in Città Alta

Bambini per sempre

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Se ripenso alla gioia che impregnava d’abitudine le mie giornate, credo proprio di essere stato un bambino fortunato.

Forse perché ci sono pochi luoghi che hanno avuto così grande rispetto per l’infanzia come Città Alta.

Questo borgo medievale adagiato su sette colli – proprio come Roma – era allo stesso tempo intimo e collettivo. La concentrazione degli spazi favoriva la vicinanza, si viveva tutti sullo stesso immenso pianerottolo, condividendo portici e cortili, vicoli e giardini.

La solitudine in Città Alta non era prevista, almeno per noi bambini. Stavamo sempre in gruppo e a stretto contatto con il mondo degli adulti. Così abbiamo imparato a osservare le persone da vicino, accettando con disinvoltura anche i comportamenti più eccentrici e bizzarri.

Ricordo il Costante e il Ciccio Matto, il Napoli e il Caglioni. Molto probabilmente, altrove sarebbero stati ospiti di istituti o case di cura mentre per noi erano solo personaggi stravaganti che animavano il nostro quotidiano.

Con il suo sguardo protettivo e accogliente, Città Alta comprendeva e conteneva. Così la loro presenza era solo uno dei tanti elementi che distingueva il nostro amato borgo, ben protetto dalle Mura Venete, dalla città vera e propria, quella Bassa.

Per noi era normale incontrare il Costante in tenuta sportiva, numero di gara sulla maglietta e cappellino ben calcato in testa. Con la sua voce roca perennemente impastata ci ripeteva che si stava allenando per le Olimpiadi. La medaglia d’oro nella maratona sarebbe stata sua. Anche se poi, il più delle volte, era vestito come Felice Gimondi.

Oppure il “Napoli”, quell’uomo grande e grosso che pur non avendo mai visto il mare e tantomeno la città partenopea era un accanito tifoso del Napoli. Parlava solo in bergamasco stretto ma l’argomento era sempre lo stesso: la squadra in maglia azzurra del “Petisso” Pesaola e di “Totonno” Juliano.

Poi c’era il Ciccio Matto, all’anagrafe Egidio Borsatti. Con le mani intrecciate dietro la schiena, percorreva in su e in giù la Corsarola dalla mattina alla sera.

Secondo la leggenda perse la ragione per i maltrattamenti ricevuti da un federale fascista furibondo con lui perché si era innamorato di sua figlia. Per noi sentire il Ciccio Matto urlare a squarciagola epiteti irripetibili contro il duce era una consuetudine. Così come vederlo farsi all’improvviso docile e garbato, bastava fargli un sorriso o limitarsi a un cenno di saluto per poter ammirare i suoi profondi inchini di ringraziamento.

E non posso dimenticare il Nino Valsecchi che fischiava meglio di un merlo innamorato pur avendo un dente solo. Convinto di essere un ufficiale dell’aeronautica, elencava tutti gli aeroporti d’Italia, da Bolzano a Pantelleria, senza scordarsene uno.

Ridevamo come matti nell’ascoltare le sue tiritere. “Olio, pepe, sale e acqua minerale”. “Lo diciamo tutti in coro: buona notte e sogni d’oro”. O quando richiamava la nostra attenzione strillando “Non c’è la calamita, non c’è la calamita!”, mentre teneva in equilibrio la stampella sulla spalla.

Di Stefano Caglioni ho scritto tempo fa, rievocando quella sera del 1982 in cui entrò da Mimmo inneggiando a Paolo Rossi, dopo quell’indimenticabile vittoria dell’Italia sul Brasile per 3 a 2.

Stefano aveva fatto il Sarpi e si era laureato in lettere ma nell’animo era un artista. Con la chitarra perennemente scordata era un vero strazio ma con tele e pennelli se la cavava bene. Lo trovavi sempre in Piazza Vecchia e, ogni volta che ti fermavi a conversare con lui, ti ritrovavi in un turbine di parole, volteggiando da Janis Joplin a Glenn Strömberg, dai suoi viaggi in India alle encicliche di Sua Santità.

Mi mancano tutti, davvero. Amavo profondamente la loro estroversa follia, quelle improvvise esplosioni di allegria o di rabbia fatte di grida e di risate, il più delle volte seguendo lo stesso identico e rassicurante canovaccio.

Maschere di un carnevale che durava tutto l’anno ci hanno insegnato a uscire dall’ovvio, considerando la loro diversità come un’innocua alternativa, spesso gioiosa, a quella che viene definita “normalità”. Creature dal cuore stregato, a loro volta liberavano i fantasmi rinchiusi nelle caverne inaccessibili delle loro menti, grazie all’ambiente protetto che li circondava e a tutti noi, che li accettavamo per quello che erano.

In fondo erano solo uomini restati bambini, con tutta l’ingenuità e l’irriverenza che distingue i più piccoli e i puri di cuore. Vivevano in un loro mondo magico ed astratto di cui Città Alta era parte integrante. Bambini per sempre. E per sempre nei nostri ricordi.

 

Quell’Italia Mundial con Stefano Caglioni:

https://damimmoelina.com/quellitalia-mundial-con-stefano-caglioni/