- Nato in Città Alta
Eravamo quattro amici al bar
“Nighthawks” di Edward Hopper, 1942 – Immagine di pubblico dominio.
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Eravamo quattro amici al bar / Che volevano cambiare il mondo
Destinati a qualche cosa in più / Che a una donna ed un impiego in banca
Che poi noi eravamo in cinque e, anziché al bar, ci trovavamo al ristorante, Da Mimmo. Anche noi, come nella canzone di Gino Paoli, volevamo cambiare il mondo.
C’era Pietro, che guidava con disinvoltura la sua Volvo familiare rosso vermiglio, forse la prima station wagon che si vedeva in giro in quei primi anni Novanta. In poco tempo, era diventato manager di una multinazionale che si occupava di consulenza finanziaria. Lo avevano assunto subito dopo la laurea in economia e commercio e, in un attimo, eccolo lì, a vendere e comprare azioni e derivati, riempiendosi la bocca, compiaciuto, di numeri, statistiche e profitti. Insomma, un vero yuppy.
Poi c’era Giovanni, che per tutti noi era “Cibo”. Un soprannome affibbiatogli dopo le medie, quando si era iscritto alla scuola alberghiera di San Pellegrino. Dopo un solo anno di studi decise di mollare soufflé e fondi bruni stregato dal fascino irresistibile della partita doppia. Divenne un commercialista un po’ atipico, i cui clienti spaziavano dal minuscolo bar di periferia al panificio sotto casa. Perfino una cooperativa di lavoratrici dei bagni degli autogrill, di cui gestiva anche le mance.
Il terzo era Enrico, architetto mancato e antiquario a tempo perso. Alla fine, si era dedicato con passione agli equilibrismi dell’arte di amministrare la “cosa pubblica”, entrando a far parte, in pianta stabile, della scena politica locale.
Infine, non poteva mancare Stefano, un amico d’infanzia che lavorava come restauratore in una bottega di Città Bassa. Da tempo aveva abbandonato il calcio, la sua più grande passione. Era stato una promessa, prima che la vita gli proponesse distrazioni continue alla George Best, di cui non posso non citare la sua affermazione più celebre. “Ho speso gran parte dei miei soldi in alcol, donne e automobili. Il resto l’ho sperperato”.
Il quinto della “band” ero io, il padrone di casa. Ogni sera, dopo le dieci, li attendevo trepidante per dare un senso di compiutezza alla mia giornata.
Ognuno a rincorrere i suoi guai
“Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi farò”, come cantava il grande Gino. Seduti al tavolo di quel dopolavoro che diventava il ristorante a ora tarda, ciascuno di noi portava un pezzo della sua vita per condividerla con gli altri quattro.
Esistenze diverse, attese differenti. Un gruppo di amici così eterogeneo era difficile anche solo da immaginare. Eravamo accomunati dalla voglia di vederci ogni sera Da Mimmo, il nostro Roxy Bar, ognuno a rincorrere i suoi guai.
D’inverno, al centro del tavolo, non mancavano mai una bottiglia di vino rosso e un vassoio di noci e mandarini a farle compagnia. D’estate, una bottiglia di bianco, fredda al punto giusto, e un trionfo di frutta fresca di stagione.
Ci trovavamo senza darci un appuntamento o sentirci prima. Anche perché l’unico in possesso di telefonino era Pietro. Aveva uno dei primissimi Motorola, di quelli che pesavano più di un ferro da stiro, con l’antenna estraibile per captare un segnale che in Città Alta, anche per le mura trecentesche del ristorante, era davvero debole, a malapena una tacca.
Proprio perché la vita distribuisce equamente gioie e dolori, Pietro venne lasciato dalla sua fidanzata storica. Alle sue giacche di Armani, lei aveva preferito le t-shirt “Fruit of the Loom”, sformate per i troppi lavaggi, di un fantomatico DJ milanese.
Capelli sistemati alla perfezione con mezzo chilo di gel, cravatta allentata e sigaretta pendula stretta tra le labbra, Pietro si sedeva al nostro tavolo non prima di aver posizionato il suo Motorola, con l’antenna alzata al massimo, nell’unico punto in cui vi era un timido segnale. Saliva su una sedia e appoggiava il telefonino sul ripiano più alto di una credenza, dove i bicchieri da vino sembravano messi lì apposta per tenere in bilico il prezioso marchingegno.
Quel giovane rampante, depositario dei misteri dell’alta finanza, non si dava pace per il suo amore perduto e aspettava fiducioso che lei lo chiamasse per fare ammenda e rimettersi con lui, ma quella telefonata non arrivava mai.
Warrant, capital gain e break even point.
Enrico ci raggiungeva sempre dopo i cento colpi del Campanone. Spesso al termine di un dibattito politico in qualche sede sperduta dell’Alta Valle Brembana o della Bassa bergamasca. Ripeteva, ogni volta, di sentirsi troppo stanco e di non aver fame, ma poi si rimpinzava di noci e mandarini, formando con i gusci e le bucce una bella montagnola, degna di riprodurre in miniatura una volta la Roncola e una volta il canto Alto.
Cibo, invece, Da Mimmo ci veniva per cenare davvero. Non aveva mai preso la patente per l’auto e si muoveva solo con il suo fedele ciclomotore, un Sì della Piaggio, che parcheggiava in divieto, fuori dal ristorante. A casa ci andava solo per dormire. Navigava sempre a vista tra amori improbabili, fidanzandosi con brave ragazze che immancabilmente lo mollavano disperate. Un giorno sì e uno no, si innamorava di un’altra, che non era né più bella né più simpatica ma semplicemente “un’altra”. Lui si giustificava sempre con la stessa formula: “Una è troppo per me”. Per ultimo arrivava Stefano, ancora in tuta da falegname, profumato di cera e tabacco. Con quella sua espressione da eterno bambino, aveva già completato il giro dei bar di Città Alta, dove aveva giocato a carte e bevuto quei calici che lo rendevano allegro e triste nello stesso tempo.
Le sofferenze amorose di Pietro, da notizia del giorno divennero la notizia della settimana per poi diventare quella del mese. Non si voleva rassegnare in alcun modo all’essere stato abbandonato per un “mezzo musicista”. Ci aggiornava, sera dopo sera, sugli sviluppi della telenovela. “Anche i ricchi piangono” e “La schiava Isaura” non erano nulla a confronto.
Noi cercavamo di distrarlo, facendolo parlare di warrant, capital gain e break even point, magari per capirci anche qualcosa, ma era un’impresa ardua, se non impossibile. La sua era diventata un’ossessione.
L’apetìt al te manca mìa. L’è zamò ‘na bèla roba.
Chissà, forse per lenire le ferite del suo cuore addolorato, Pietro ordinava ogni sera un filetto rigorosamente al sangue. Lo divorava con avidità, maledicendo le proprie sventure tra un boccone e l’altro. Mangiava con gusto, tanto che una volta Stefano esclamò, in dialetto bergamasco: “L’apetìt al te manca mìa. L’è zamò ‘na bèla roba”.
Con quella frase – entrata con merito nel Grande Libro dei ricordi del ristorante Da Mimmo – Stefano non voleva sminuire le sofferenze patite dal nostro amico broker. Affatto, nel suo essere spontaneo e senza fronzoli, era davvero convinto che un buon appetito fosse sintomo di benessere psicologico, e la cosa lo rassicurava.
Io ed Enrico, a cui immancabilmente si chiudevano gli occhi dal sonno, scoppiammo a ridere, mentre Cibo, misogino e fatalista, non fece una piega. Come d’abitudine, si limitò ad uno dei suoi commenti a mezza voce, di quelli che non offrivano appigli a inutili illusioni.
Nell’attesa di Godot o, come nel Deserto dei tartari, di qualcuno che non si farà mai vedere o sentire, la sera stessa, allo scoccare delle mezzanotte, ecco squillare il Motorola. Una, due, tre volte. Ci guardammo tutti e cinque negli occhi: “È lei, finalmente ha capito che non si può buttare via un amore così grande”. Pietro raggiunse in un attimo il telefonino, lasciandosi andare a un giustificato turpiloquio per essersi dovuto arrampicare sulla credenza rischiando di frantumare una decina di bicchieri: “Pronto!”.
Dalla sua espressione era evidente che pure quella volta la speranza non aveva trovato dimora. Terminato quel dialogo assai breve, fatto di bisbigli e mezze parole, Pietro si risedette al tavolo e riprese ad azzannare il suo filetto come nulla fosse.“Chi era?”, chiedemmo in coro. “Il mio capo”, ci rispose asettico. Iniziammo a sghignazzare, prima sommessamente poi piegati in due dalle risate. Ne venne contagiato anche Pietro, che finì per farsi andare di traverso il più succulento dei bocconi.
Un po’ “Amici miei”, un po’ “I vitelloni”.
Le sere se andavano così. Senza accorgersi arrivava l’una, l’una e mezza, e nel ristorante rimanevamo solo noi. Faticavamo ad abbandonare quell’atmosfera, pigra e solidale, a metà tra “Amici miei” e “I vitelloni”. Ci sentivamo come in quel dipinto di Edward Hopper dedicato ai nottambuli, i falchi della notte.
I gusci delle noci colmavano il vassoio sul tavolo, le bucce di mandarino avevano perso ogni profumo. Lentamente, ognuno di noi prendeva la via di casa. In sella al suo Sì Piaggio, Cibo se ne andava sgasando rumorosamente. Stefano si incamminava rimuginando sulla contessa Tal dei Tali che non era mai contenta di come le restaurasse la mobilia. Enrico saliva in macchina ripensando ancora una volta a quando era stato in America, un viaggio che gli aveva cambiato la vita, mentre Pietro metteva in moto la sua station wagon che, in fondo, aveva comprato perché piaceva a lei.
Per mesi siamo andati avanti così, fino a quando gli incontri si sono diradati e ci siamo persi di vista. Per un amore nuovo e travolgente, per un lavoro irrinunciabile a Milano, per un mobile complicato da restaurare, per i conti di quella parrucchiera alle prime armi che proprio non tornavano.
“Son rimasto io da solo al bar, gli altri sono tutti quanti a casa”. Gino la sapeva lunga.
Chissà poi se, alla fine, Pietro ha ricevuto quella telefonata. Mi sa di no. Come dubito che lui, nel frattempo, abbia perso l’appetito.
Un’ode all’amicizia.
Questo racconto è dedicato a quattro amici che davvero, ogni sera, venivano a trovarmi. Che poi i nomi siano reali o immaginari non è importante, reali sono le situazioni, anche se arricchite da un pizzico di fantasia. È un’ode all’amicizia, alla spensieratezza di quegli anni e al tempo, che non è passato invano.