• Le storie di Mimmo

Una cosa sola

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“Bergamo alta è una delle più belle città d’Italia, e il talento artistico dei bergamaschi è riuscito finora a preservarla quasi intatta.

Ricordo la mia emozione quando mi arrampicai per la prima volta per quelle vie strette, tortuose, culminanti della grande piazza, nella Cappella Colleoni, in Santa Maria Maggiore, fino a quei portali romanici che servono da sfondo a drammi sacri recitati all’aperto, non lontano dai piccoli ristoranti famosi per la polenta e uccelli. Il dedalo delle vie si apre di tanto in tanto in terrazzi erbosi, contemplanti da un lato la pianura lombarda, dall’altro una valle fra le colline. Uno scrittore di romanzi direbbe questa una fusione perfetta tra racconto e paesaggio.

Sono parole del narratore e giornalista Guido Piovene, scritte nei primi anni Cinquanta, tratte dal suo “Viaggio in Italia. Una vera e propria guida letteraria, compilata con straordinario acume, che ci racconta un Paese che si apprestava a vivere un’era di benessere e prosperità.

Alla scoperta della nostra città, Piovene fece “un giro per Bergamo Alta con l’architetto Luigi Angelini, che lavora alla sua conservazione con l’opera e con gli scritti”.

Nonostante fosse in atto un’intensa attività di risanamento – e molti edifici, dichiarati inabitabili, in attesa di essere demolitilo scrittore vicentino comprese tutta la bellezza di questi luoghi. Gli stessi in cui si ritrovarono a vivere i miei genitori, nel 1956, quando aprirono il loro locale in via Colleoni, a due passi da Piazza Vecchia.

In Bergamo alta “vi è una specie di oscillazione tra l’estro e la praticità, tra il realismo e il sogno, tra la follia geniale e la prosa metodica”. Piovene era un osservatore sensibile e perspicace, ma non sappiamo se colse un altro aspetto rilevante che caratterizzava la Città Alta di quell’epoca, e che sopravvive in parte anche oggi: l’essere un ambiente di vicinato come pochi.

Quando il silenzio ammanta ogni cosa.

Forse era l’unicità dei suoi abitanti, di generazione in generazione radicati in quelle case, o soprattutto il suo essere intimamente borgo. Sta di fatto che, in quel saliscendi di vicoli e stradine, dove si alternavano palazzi nobiliari a umili botteghe artigiane, coesistevano con divisione e sostegno reciproco, sentimenti autentici e la concretezza del fare. Ne ho avuto la riprova infinite volte.

Qualcuno potrebbe ribattere che, tutto ciò, avviene in ogni borgo o paese. Può anche darsi, ma sono rari i luoghi che hanno subìto così tante trasformazioni, a volte repentine e inaspettate, come la Bergamo racchiusa all’interno della cinta difensiva edificata dalla Serenissima.

Nel secondo dopoguerra, c’è stata una Città Alta della povertà e, negli anni Settanta, una Città Alta della paura. Ora, c’è quella della bellezza e dell’accoglienza turistica. C’è stata una Città Alta che al cuore aveva il severo e vetusto carcere di Sant’Agata e, oggi, una Città Alta che al centro ha l’università e un’infinità di studenti ad animarla.

Ciò che è rimasto immutato, nel tempo, è il fascino delle prime ore del mattino, quando il silenzio ammanta ogni cosa, come brina distesa su un prato.

L’unica differenza sta nel profumo del pane che ora non c’è più. Fino a qualche anno fa, qui vi era più di un panettiere che impastava la notte e infornava al sorgere del sole.

Tra i fornai più conosciuti e apprezzati di Città Alta c’era Tresoldi. Anzi, i Tresoldi, perché anche loro, come gli Amaddeo, erano una famiglia numerosa.

Guarda che è successo qualcosa, di solito tuo papà apre alle cinque e trenta.

Per sua abitudine, mio padre si alzava molto presto. Prima che la giornata prendesse il suo abbrivio, amava fare due passi lungo la Corsarola ancora deserta. Poi bisognava correre, ma almeno in quel paio d’ore di quiete poteva starsene in taciturna compagnia dei propri pensieri.

Tra il suo lavoro che stava per iniziare e quello dei fornai che si era appena concluso, all’interno del nostro locale nacque spontaneo un rendez-vous quotidiano, complice e solidale, tra un ristoratore di origine calabrese, particolarmente mattiniero, e alcuni fieri rappresentanti orobici dell’arte bianca.

In inverno, quando fuori era freddo e buio, o in estate, con la calura che rendeva arduo stare davanti al forno, al sorgere del sole di ogni santo giorno, papà e almeno un rappresentante della famiglia Tresoldi si trovavano per leggere insieme L’Eco di Bergamo fresco di stampa, manco fosse una pagnotta appena sfornata, commentando a monosillabi le notizie principali.

Un imprescindibile rito mattutino da portare a termine sorseggiando un buon caffè accompagnato da un panino ancora caldo.

Abbandonati al sonno del giusto.

Non ero a conoscenza che, alle prime luci dell’alba, ci fosse tutto questo via vai al piano di sotto. Lo scoprii una mattina d’estate in cui, alle sei e mezza, il citofono si mise a trillare con insistenza facendomi sobbalzare tra le lenzuola.

Andai a rispondere e sentii una voce preoccupata arrivare dalla strada. In giro non vi era ancora anima viva e anche senza il citofono avrei sentito ugualmente. Aprii la finestra e scorsi due dei fratelli Tresoldi che mi dissero:Come mai il Mimmo è chiuso?”.

Rimasi perplesso, non sapevo cosa rispondere. Balbettai:Ma non è un po’ presto per aprire il ristorante?”. La risposta fu immediata e carica di preoccupazione:Guarda che è successo qualcosa, di solito tuo papà apre alle cinque e trenta.

Mi precipitai in camera dei miei. Spalancai la porta ed eccoli lì, nel letto, abbandonati al sonno del giusto, profondo e ristoratore. Non si erano mai svegliati dopo di me. A pensarci bene, non so se li avevo mai visti dormire.

Mi avvicinai a mia madre, lentamente, posandole una mano sulla spalla. Lei si svegliò di soprassalto. Le lasciai un attimo di tempo perché si riprendesse da quel piccolo spavento e le chiesi cosa fosse successo. Sopprimendo un accenno di sbadiglio mi rispose:Papà deve aver preso una pastiglia per dormire. E finalmente ho dormito anche io”.

Interno familiare ed esterno familiare.

In ogni occasione, mamma e papà erano una cosa sola. Sempre insieme, nella buona e nella cattiva sorte, ma anche solo per condividere una mela o una fetta di pane condito con olio e un pizzico di sale. O, come in questo caso, i vantaggi indiscutibili di aver preso una pastiglia.

I Tresoldi, ancora in strada, erano in attesa della buona novella: che non fosse successo nulla. Li rassicurai, era solo il sonnifero che aveva fatto il suo effetto. Uno scambio veloce di battute, un sorriso, e per tutti iniziò una nuova giornata.

Interno giorno e interno notte, esterno giorno ed esterno notte. Nel cinema, gli sceneggiatori prevedono queste quattro situazioni. Pensando a quella Città Alta di prossimità, così intrecciata da mille relazioni, credo che due siano sufficienti: interno familiare ed esterno familiare. Che poi, il più delle volte, finivano per fondersi e confondersi, tanto da diventare una cosa sola. Come Mimmo e Lina.