• Le storie di Mimmo

Il pane di mio padre

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“È nato nella cenere, sulla pietra. Il pane è più antico della scrittura e del libro”.

Inizia così “Pane nostro” di Predrag Matvejevic, uno dei testi più densi e profondi che mi sia mai capitato tra le mani.

Quella del pane è un’avventura emozionante – intrisa di cultura e poesia, arte e fede – che abbraccia l’intera storia dell’uomo. Una vicenda che ha radici antichissime, perché furono le semine e i raccolti a portare alla suddivisione del tempo in stagioni, dell’anno in mesi, settimane e giorni.

Un semplice impasto di acqua e farina, trasformato dal fuoco e dalla sapienza dell’uomo, divenne l’essenza stessa del nutrimento e della condivisione. Ed è proprio quest’ultimo concetto, “la condivisione”, che mi spinge a raccontare cosa significa per me, ancora oggi, il pane di mio padre.

Mille ricordi che affiorano, mille momenti da serbare. Ma tutto ha inizio, come si può ben immaginare, dalla prima volta in cui l’ho assaggiato.

Natale era l’unico giorno dell’anno in cui il ristorante restava chiuso. Una tradizione di famiglia. Anche quella mattina, prima ancora di mettere la statuina del Bambin Gesù nella mangiatoia del piccolo presepe che avevamo allestito in cucina, papà si alzò all’alba per verificare che il forno delle pizze fosse ancora caldo dalla sera precedente.

E come quella prima volta in cui pensò che quel calore non dovesse andare sprecato, prese un po’ di pastelle delle pizze unendole in un unico filone. Lo pose sul marmo e fece quattro piccoli tagli orizzontali per far cuocere al meglio l’impasto, poi lo mise nel forno a legna, ancora impregnato dei profumi che lo avevano invaso poche ore prima. Attese che si cuocesse per bene e, una volta pronto, fece a passo svelto i pochi gradini che conducevano in casa, appoggiandolo con delicatezza sul grande tavolo al centro della cucina.

Noi ragazzi ci eravamo appena svegliati e l’odore di quel pane che si diffondeva con prepotenza nelle stanze ci mise tutti quanti di buon umore. Un profumo buono e caldo che sapeva di lievito. In quel momento compresi appieno il significato dell’espressione “avere l’acquolina in bocca”.

Restando in piedi, papà affettò il pane facendo sì che le fette fossero tutte della stessa dimensione, perché le scaramucce, tra noi, come brace sotto la cenere, erano sempre pronte a ravvivarsi.

Il sapore e la fragranza di quella prima fetta di pane dimoreranno per sempre nelle pagine più belle del mio album dei ricordi. Quella pagnotta ancora calda finì in un attimo e il pane di mio padre, a colazione, divenne una gioiosa abitudine.

Ognuno di noi aveva le sue preferenze: chi lo amava così, semplice e asciutto, chi con un velo di marmellata, vien da sé preparata da mia mamma, o un filo d’olio, appena pungente, come quello che ci arrivava dalla Calabria.

Croccanti e dorati all’esterno, quei lunghi filoni custodivano una generosa quantità di gustosa mollica. Tanta bontà non poteva certo rimanere solo in famiglia e papà iniziò a preparare il pane anche per i nostri clienti. Sempre in quantità limitate, perché poteva cuocerlo solo in quel breve lasso di tempo in cui il forno, raffreddandosi, raggiungeva la giusta temperatura.

La sua abilità stava nello scegliere il momento adatto in cui infornare i suoi filoni, tutti da un chilo e mezzo, sei al mattino e altrettanti al pomeriggio. Non uno di più, non uno di meno. Come se alle cose buone fosse necessario mettere un limite per poterle apprezzare veramente.

Quel pane ebbe subito un enorme successo. In Città Alta si sparse la voce e i clienti, non solo quelli abituali, ne richiedevano sempre di più. Mio padre era irremovibile: non era possibile produrne di più, quello era e quello doveva bastare. A chi gli chiedeva un filone intero, abbozzando un sorriso rispondeva che doveva accontentare tutti.

Quel sentimento limpido e sincero che provava verso il “suo” pane veniva da molto lontano. Come la maggior parte dei suoi coetanei, papà aveva vissuto le fatiche e gli stenti della guerra. Una convivenza quotidiana con la paura e la fame. Perciò no, il suo pane doveva essere condiviso dal maggior numero di persone.

Delle debolezze umane, quella che mio padre odiava più di tutte era l’egoismo. Trovava ingiusto e immorale desiderare tutto per sé, che si trattasse di beni materiali, di emozioni o di bellezza. Per questo voleva che quel pane fosse di tutti e che tutti ne mangiassero, nessuno escluso.

Anche nei suoi ultimi anni di vita, dopo il suo immancabile e meritato sonnellino, papà avvicinava le mani al forno per capire se il calore era quello giusto, plasmava con disinvoltura l’impasto, infornava e attendeva pazientemente che il pane venisse pronto, magari ingannando l’attesa dedicandosi al suo amato Bartezzaghi. Gesti ripetuti chissà quante volte che mi facevano pensare alla celebrazione di una liturgia. A una forma di preghiera che andava oltre i riti e le religioni. A un atto d’amore.

Lo devo a mio padre il profondo rispetto che ho per il pane, in tutte le sue forme, provenienze e destinazioni. E credo abbia ragione Niko Romito – il grande chef abruzzese, uno dei più influenti e celebrati al mondo – quando dice che il pane potrebbe costituire una portata a sé, senza aver nulla da invidiare al miglior piatto di spaghetti. Il pane da solo, non accompagnato. Una fetta di pane.