• Le storie di Mimmo

Amami, Alfredo

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Ci sono uomini, visionari e intuitivi, capaci di scorgere distintamente il domani. Lo agguantano e lo conducono al proprio tempo. Alfredo Calligaris era uno di questi.

Rovigno è un villaggio di pescatori dell’Istria adagiato su una stretta penisola protesa verso l’Adriatico. Alfredo nasce lì, in una di quelle case addossate una all’altra, ma non ha il tempo di crescere e godersi il mare o la pesca di primo mattino. La Seconda Guerra mondiale incombe, lugubre e minacciosa, e lui deve abbandonare in tutta fretta quella terra che amerà fino all’ultimo dei suoi giorni. 

Si traferisce a Gorizia, al seguito della sua famiglia. In Friuli, diviene professore di educazione fisica, laureandosi poi in medicina dello sport a Pavia. Di lui, il noto telecronista Bruno Pizzul ricorda: “All’Istituto Tecnico di Gorizia, Alfredo Calligaris era il nostro professore di ginnastica. Non ci era particolarmente simpatico. Era un giovanotto spigliato, sempre abbronzato e sfoggiava maglioni sgargianti. Le ragazze avevano occhi solo per lui”.

Alle pendici del Carso, Alfredo ci resta per poco tempo. Il destino, infatti, lo porta a Bergamo. Si trasferisce qui per amore di Anna e per insegnare all’Esperia. Ma lui ha mille idee per la testa e la scuola non gli basta. 

Già quando studiava all’Università si era posto un obiettivo: mettere la scienza al servizio dell’agonismo. È da questa sua spinta interiore che intraprende la sua luminosa carriera nella preparazione atletica. In questo campo, Alfredo Calligaris è un pioniere che mette a punto le sue idee rivoluzionarie proprio dall’Atalanta, diventando responsabile dello staff medico. 

Lavorare con i nerazzurri locali – i primi a vestire questi colori, perché l’Internazionale nasce un anno dopo – gli permette di inserirsi nel mondo bergamasco, all’epoca un po’ chiuso. Ed è partendo da quella che oggi tutti chiamano la “Dea” che Alfredo introduce la preparazione atletica nel calcio. 

Sempre un passo avanti, quest’uomo di bell’aspetto e dai modi garbati diventa uno degli artefici delle vittorie della Grande Inter di Helenio Herrera: tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. 

Vent’anni dopo è ancora lì, dove più in alto non si può. Nel 1982, dà il suo contributo al trionfo della Nazionale guidata da Enzo Bearzot al “Mundial” spagnolo. Negli anni Ottanta e Novanta, mette tutta la sua esperienza al servizio della Federazione Italiana “Giuoco” Calcio, diventando docente di “Metodologia dell’allenamento” ai corsi di Coverciano.

Successi, applausi e riconoscimenti nel mondo del pallone, ma nella sua vita professionale non c’è solo il calcio. Come allenatore o consulente, partecipa a diciassette olimpiadi, invernali ed estive. Vede nascere la Valanga Azzurra di Gustavo Thoeni, Pierino Gros e del nostro Fausto radici, mentre miete successi nel motociclismo, proponendo addirittura nuove tecniche di guida. Si dedica anche alla Nazionale di sci nautico con la quale vince un mondiale dopo l’altro, senza dimenticare il suo primo amore, il basket, che Alfredo pratica fino a giocare in Serie A. 

È partendo da quella che oggi tutti chiamano la “Dea” che Alfredo introduce la preparazione atletica nel calcio. 

 A Bergamo, Alfredo sta bene, si sente a casa. Diviene anche un assiduo frequentatore del nostro ristorante. Una pizza preparata apposta per lui, un ringraziamento di cuore ed ecco nascere una sincera amicizia tra lui e mio padre. 

Appartenevano entrambi alla stessa generazione e, al di là delle differenze evidenti, io li trovavo straordinariamente simili. Quell’ingegnarsi continuo, quasi ossessivo, nella ricerca della soluzione più felice a ogni problema. Che poi non era mai un problema, ma una sfida da vincere, senza farsi condizionare dai mezzi a disposizione. 

Dei loro discorsi non volevo perdere nulla. Una volta, Alfredo raccontò di come allenò il giovane Gimondi a correre in bici sotto le intemperie. Per un ciclista, anche una piccola bronchite può pregiudicare una gara e, a volte, un’intera stagione. Fu così che prese la bicicletta del campione di Sedrina e la fece fissare su dei rulli nella doccia degli spogliatoi di una palestra. Quindi, invitò Gimondi a salire sulla bici pedalando a vuoto mentre lui iniziò a far scorrere l’acqua, prima tiepida e poi sempre più fredda. Non so se questo metodo sia mai servito a battere il suo più acerrimo rivale – Eddy Merckx, il “cannibale” – ma sicuramente fu utile a stargli a ruota come nessun altro. 

Mi sentivo un privilegiato ad ascoltare quegli aneddoti straordinari. Alfredo aveva avuto a che fare con gli sportivi più grandi della sua epoca: dal mitico maratoneta scalzo Abebe Bikila a Carl Lewis, il figlio del vento, per passare a glorie nazionali come Nino Benvenuti e Sara Simeoni, Berruti, Mennea e tanti altri.

Il modellatore di uomini.

Gianni Brera restò affascinato da questo giovane studioso di scienze motorie capace di prendere un atleta in forma grossolana e di plasmarlo ad arte per farne un campione. Così, Alfredo Calligaris, per lui divenne “Il modellatore di uomini”. E il Gran Padano se ne intendeva di soprannomi. La letteratura sportiva italiana abbonda delle sue invenzioni: per Gigi Riva coniò “Rombo di Tuono”, Rivera divenne “l’Abatino” e Boninsegna fu “Bonimba”. Superlativo il “Conileone” affibbiato a José Altafini, sintesi diabolica tra coniglio e leone.

I racconti di Alfredo non si limitavano allo sport. Con tono leggero si aprivano ad ogni argomento. Trattenni a stento le risate quella volta in cui mi raccontò della madre preoccupata per lui, poiché aveva già trent’anni e non si era ancora sposato. 

Alfredo, che era un uomo brillante e di gran fascino, non ne voleva sapere. Allora la madre gli disse in dialetto: “Alfredo, spòsete, tròvetene una brava, anca bruta, che la bellezza passa”. La risposta di Alfredo fu inconfutabile: “Mamma, già che la bellezza passa, si la trovo bruta cossa succede?”. 

E l’amore arrivò. Aveva la grazia e l’eleganza di Anna. Insieme erano bellissimi. Venivano spesso a trovarci ed era facile. Avevano una parola gentile per tutti, dai camerieri all’intera brigata impegnata in cucina. 

Una vita bellissima e piena quella di Alfredo, fino a quando la sua amata sposa si ammalò e in poco tempo lo lasciò solo. Fu allora che l’amicizia con mio padre si fece ancora più salda, e lui divenne parte della nostra numerosa e chiassosa famiglia. 

Ogni martedì sera, a ristorante chiuso, Alfredo cenava a casa Amaddeo, deliziandosi di tutte le bontà che mia madre cucinava per noi: la pasta e fagioli, la mozzarella in carrozza, il baccalà dell’Annunziata e gli arancini di riso, come li chiamano a Messina e nella Sicilia orientale. Perché a Palermo si dice “arancine”, e se sbagli si offendono.

Cene meravigliose e indimenticabili. 

Sono convinto che la fortuna mi abbia baciato in fronte nell’avermi fatto incontrare e frequentare un uomo di sport così unico e speciale. Era come ascoltare, vent’anni in anticipo, le narrazioni appassionanti di Federico Buffa. Come l’autore de “La milonga del fútbol”, anche Alfredo era un affabulatore magistrale.

Dopo la morte di mio padre anche lui cominciò a patire l’incedere del tempo e fu colpito da quel morbo terribile che ti fa dimenticare tutto, trasportandoti in un limbo di pensieri confusi e nebulosi. 

Fu ricoverato in una casa di riposo. Anche lì, in quel luogo in cui era destinato a consumare l’inevitabile tramonto della sua esistenza, Alfredo riuscì a sorprendere tutti. Pur immerso nell’oblio, incontrò una donna della sua età affetta dallo stesso malanno. Tra loro nacque una tenera storia d’amore. Medici e infermieri li osservavano passeggiare a lungo per il giardino raccontandosi chissà cosa. 

Ogni giorno, come fosse il primo. Perché la sera andavano a dormire e la mattina seguente, quando si incontravano, non si riconoscevano. Si scordavano di essersi innamorati. Eppure, ricominciavano a parlare e a camminare tra gli oleandri tenendosi per mano. 

Che la ricetta dell’amore sia questo iniziare, ogni giorno, da zero? Di certo era il segreto di Alfredo Calligaris, il modellatore di uomini. E di innumerevoli sogni.