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- Le storie di Mimmo
L’Italia dal finestrino
Tempo di lettura: 4 minuti e mezzo
Arrivava l’estate. E con la bella stagione arrivavano le cene all’aperto, le pizze in compagnia e, ogni sera, una brezza leggera che dai Colli rinfrescava Città Alta rendendo più sopportabile la calura di luglio e agosto.
Da Mimmo si correva, non c’era un attimo di sosta. Poi, dopo Ferragosto, il ritmo del lavoro rallentava un po’. Non troppo a dire la verità, ma quanto bastava a ricordare a Mimmo e Lina che avevano sette figli di cui occuparsi.
In realtà i primi figli ormai erano già grandi e indipendenti, le vacanze le trascorrevano con gli amici, non certo con i genitori. Poi c’eravamo noi, i tre piccoli: Robi, Mauro e Massimo, tre scugnizzi sempre in movimento che nel 1976 avevano 11, 8 e 7 anni.
Fu così che Mimmo, sul finire di quella lunga estate calda, quella in cui Antonin Panenka inventò il “cucchiaio”, decise di portarci in Calabria. Solo noi quattro, una vera vacanza per soli uomini, in direzione Reggio Calabria per andare a trovare i parenti rimasti là.
Ci aspettava un viaggio di 1.350 chilometri, sotto il sole di agosto, che avremmo fatto con la nostra gloriosa Fiat 132 Mirafiori blu. Per dei bambini piccoli sarebbe stato un viaggio interminabile, e a quell’epoca non c’era l’aria condizionata, ma l’entusiasmo era alle stelle. Stavamo per intraprendere una vera e propria avventura. Per Mimmo era così forte il desiderio di far conoscere ai suoi figli la sua amata terra d’origine che, con una buona dose di incoscienza, decise per questo viaggio in direzione dello Stretto.
Frattanto nostra madre sarebbe rimasta a casa. Qualcuno doveva pur restare a Bergamo per gestire il ristorante e poi, diciamola tutta, rimanere senza i tre figli piccoli per una decina di giorni per lei significava finalmente un po’ di riposo.
La prima sosta di questo nostro elettrizzante giro d’Italia fu in un’area parcheggio sull’Autostrada del Sole, vicino a Firenze. Mimmo non era certo un uomo da autogrill, perciò, con un’abilità degna del mago Silvan, estrasse dal portabagagli il tavolino, le sedie pieghevoli e una tovaglia, rigorosamente a quadretti, che non doveva mai mancare quando si apparecchiava una tavola. “Ça va sans dire” apparve la pasta al forno che nostra madre ci aveva preparato per affrontare al meglio quella trasferta lunga e perigliosa.
Era il momento di rimettersi in viaggio. Per distrarci e farci passare il tempo, Mimmo si inventava giochi e indovinelli. Il primo, un grande classico, era quello di indovinare le targhe delle auto. CE Caserta, PT Pistoia, MI vabbè è facile… poi arrivava MC: Macerata o Massa Carrara?
Ci mettevamo anche a guardare le altre auto, tutte dirette a sud verso il sole e le vacanze. La maggior parte aveva il portapacchi stipato da valigie e scatoloni fermati da corde e cavi elastici. Quanta vitalità in quelle famiglie che percorrevano l’Italia in su e in giù con armi e bagagli.
Ora non ci rimaneva che un altro grande classico: fare le linguacce agli altri bambini sulle auto appena superate.
Poi finalmente arrivammo a Paola, in terra calabra. Ci piaceva quel nome, identico a quello di una compagna di scuola di Mauro. Pensavamo che il viaggio fosse finito, invece no, perché il Bel Paese è lungo e stretto, e per raggiungere Reggio Calabria mancavano ancora due ore e mezza.
A Paola noi bambini avevamo esaurito i giochi e nostro padre la pazienza. Allora, per tenerci buoni, iniziò a raccontarci le avventure di guerra di suo fratello, lo zio Vincenzo, prima ferito al gomito dai colpi di una mitragliatrice nella battaglia di El Alamein e poi partigiano sulle colline del lago di Como. Amavamo le storie di guerra, perché in fondo erano racconti di avventura, ci sembrava di ascoltare l’Iliade e l’Odissea o i romanzi di Salgari.
Il tempo passava lentamente e noi guardavamo l’Italia dal finestrino con la voce di Mimmo Modugno in sottofondo. Era il cantante preferito di nostro padre, di lui teneva in auto alcune preziose cassette Stereo8.
Ed eccoci arrivati a Reggio Calabria. Finalmente. Trascorremmo gli ultimi chilometri in silenzio, mentre Mimmo ormai esausto ci faceva notare il mare che, giunta la sera, sembrava un’immensa coperta blu. Col permesso di nostro padre abbassammo i finestrini per respirare appieno quell’aria carica di iodio. Per noi sapeva di mare e di vacanza, per lui era casa.
Arrivammo all’abitazione dei nonni, una costruzione bassa e senza tetto come la maggior parte degli edifici che caratterizzano le città di mare. La nonna ci aspettava sull’uscio, era lì dalle cinque del pomeriggio, tutta vestita di nero per qualche lutto passato al cui ricordo non voleva rinunciare. Parcheggiammo l’auto e non facemmo in tempo a scaricare le valigie che l’odore irresistibile di cotolette appena fritte – così diverse da quelle milanesi – ci richiamava a tavola come un pifferaio magico.
Ora iniziava davvero la festa. Adesso era proprio vacanza e il giorno dopo sarebbe stato mare, di quello senza ombrelloni ma con le barche per andare a pescare. Un mare da vivere con tutti i nostri chiassosi e simpatici cugini, dalla mattina al tramonto, fino al giorno del ritorno a casa. In quel momento, l’ultimo pensiero che ci passava per la testa.