- Le storie di Mimmo
Due parole sul Bucci
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Bucci. Un nome che fa casa, un suono familiare, un canto da intonare alla bisogna.
Anche stasera puoi trovarlo lì, alla cassa, intento a emettere scontrini e ricevute con precisione svizzera, se mai gli svizzeri sono precisi come si dice. In questo mondo dove tutto cambia rapidamente, lui è imperturbabile e immutabile. Perché in un ristorante – che è fatto di piccoli riti e frasi ripetute, sempre uguali, che ci rendono tutti più sereni – tutti vorrebbero avere un Bucci al proprio fianco. Granitico. Una certezza.
È stato uno dei primi clienti di papà, diventando per lui un amico e poi un fratello. Giuseppe Bucci è un impiegato statale che arriva a Bergamo nel 1968. Questo abruzzese nato a Castel Frentano – un paese in provincia di Chieti che vanta una frazione chiamata Trastulli – lascia con rammarico la sua terra, dove la montagna e il mare si guardano negli occhi come in nessuna altra regione italiana.
Il Bucci è uno dei tanti giovani che si sono trasferiti al Nord per lavorare nella scuola o nella pubblica amministrazione. Mio padre si immedesimava in ciascuno di questi ragazzi e ragazze, li sentiva suoi simili e riconosceva al primo sguardo le fatiche e le speranze che si portavano appresso. Per lui era spontaneo offrire loro un ambiente e una cucina – i maccheroni alla chitarra o i bocconotti – che almeno per qualche ora li riportasse a casa. A quei tavoli con le tovaglie a quadretti apparecchiati con cura prendevano posto gli affiliati a una scombinata combriccola di cui il Bucci era certamente il più brillante.
Anche il più impegnato. E lo è ancora oggi: un autentico uomo di sinistra. Eppure, con mio padre, democristiano grato a chi, secondo lui, aveva fatto rinascere l’Italia dopo la guerra, andava d’amore e d’accordo. Anche se a volte sembrava di assistere alle dispute tra Peppone e Don Camillo.
In quel cuore puro e schietto, come può esserlo solo quello di un comunista sentimentale, vi era spazio anche per un’altra fede, altrettanto sincera e profonda: la Roma. La “Maggica” come la chiamava lui.
Io, bambino stregato dalle traiettorie imprevedibili che può prendere un pallone di cuoio, fui affidato a quest’uomo dalle mille risorse per andare “all’Atalanta”. Un milanista e un romanista che facevano coppia fissa allo stadio Brumana di Bergamo per vedere le partite di quella che ormai i ragazzi chiamano la Dea.
In quegli anni, l’Atalanta giocava in Serie B, affidandosi ai guantoni di Renato Cipollini e ai dribbling ubriacanti di Lello Vernacchia, “genio e sregolatezza”, più sregolatezza che genio ad essere sinceri.
Era l’Atalanta di Bonci, Pirola e Pellizzaro, uniti da un coro rimasto nella memoria di ogni bergamasco nato negli anni Sessanta. “Bonci, Pirola, Pellizzaro, olé”. Che poi Pirola dovrebbe avere l’accento sulla “o” ma divenne forzatamente Pìrola, con l’accento sulla “i”, altrimenti la metrica andava a farsi benedire. Potere della licenza poetica da stadio.
Col Bucci ho visto l’Atalanta giocare con la Sambenedettese, il Brindisi e la Reggina. In cuor nostro speravamo un giorno di vedere i nerazzurri in Serie A, non per altro, ma per vederli affrontare le nostre squadre del cuore.
Per il mio Milan erano anni bui e complicati, tanto che lo vidi scivolare in Serie B. Fu allora che il Bucci mostrò tutta la sua magnanimità e mi permise di tifare Roma. Solo per un anno e in via eccezionale. Anche se poi gli anni divennero due.
A quella Roma finii per affezionarmi. Ricordo a memoria la formazione che vinse lo scudetto nel 1983: Tancredi, Nela, Maldera, Di Bartolomei, Vierchowod, Falcao, Conti, Prohaska, Pruzzo, Ancelotti e Iorio. In panchina c’era un monumento della storia rossonera – Nils Lieldholm – e alcuni di quei giocatori avevano indossato o avrebbero indossato la maglia rossonera.
Nei suoi occhi vedevo riflesso il mio identico modo di amare e vivere il calcio, quello che ti porta a esultare e a soffrire, sempre ad alta intensità, per i colori della tua squadra del cuore.
Per me è impossibile dimenticare l’espressione di puro dolore che apparve sul suo volto la sera del 10 maggio 1981, quando durante Juventus-Roma venne annullato senza motivo un gol ai giallorossi che probabilmente avrebbe spedito lo scudetto verso la città eterna. Un’ingiustizia talmente evidente da entrare nel mito. Lo sanno tutti: “Er gol de Turone era bono”.
Il Bucci, non me ne voglia, era ed è tutt’ora un abitudinario patologico. Ancora oggi, parcheggia la sua Ypsilon 10 sempre nello stesso punto e alla stessa ora. E non ha mai avuto un’automobile che non fosse una Lancia. D’altronde, lui non è vintage ma forever young: quando cammina il tempo si ferma per aspettarlo.
Sceglie ogni volta lo stesso posto dove sedersi sui gradoni dello stadio e, ovviamente, anche a tavola non “rischia mai”. Durante le nostre fuoruscite veneziane, per mangiare un boccone dovevamo andare per forza da CriCri, un piccolo locale del Lido gestito da un oste simpatico e ciarliero. Sì, perché il nostro sodalizio indissolubile proseguì per anni anche al Festival del cinema di Venezia, dove riuscivamo a vedere anche sei film in un solo giorno.
Il Bucci, uno che “Veltroni è troppo americano e D’Alema non lo capisco”, si innamorava delle storie collettive. Lo entusiasmavano solo i film di impegno sociale e lotta di classe. Io, giovane e inguaribile romantico, fui rapito dagli sguardi languidi di Emmanuelle Béart. Col senno odierno, la quintessenza della gattamortaggine. Il film era “Un cuore in inverno” e al Bucci fece arricciare il naso, per essere educato e non dire di peggio.
Lui amava un certo cinema d’autore. Elio Petri, Francesco Rosi, Ken Loach per intenderci. Dei film di Woody Allen, di cui io adoravo l’arguzia, non sapeva che farsene. “Non mi hanno mai interessato queste tematiche borghesi” ribadisce ancora oggi.
Ricordo quella volta in cui eravamo diligentemente in fila pronti ad assistere a un film neorealista coreano sottotitolato in inglese quando un uomo, ben vestito e di mezza età, fece il furbo e ci passò avanti. Qualcuno mugugnò a bassa voce ma il Bucci, allergico a qualsiasi prevaricazione, gridò un memorabile e quanto mai efficace: “A laziale! Ma ‘ndo vai?”.
Arrivò il giorno della pensione e lasciò da dirigente. Niente più sveglia alle sette per andare in ufficio, niente più pranzi e pause caffè con i colleghi a discutere di calcio e di politica. La sua brillante carriera nelle fila dello Stato era giunta al termine.
Quel cambio di vita così radicale e repentino resero il Bucci triste e malinconico. Mio padre soffriva a vederlo in quello stato e se ne inventò una delle sue, lo chiamò e gli disse: “Perché la sera non vieni qua da Mimmo? Ci dai una mano alla cassa”. Il Bucci accettò la proposta di papà e da allora è il cassiere ufficiale di Mimmo.
D’altronde non era la prima volta che si fidava delle intuizioni di papà. Una sera di tanti anni fa, il Bucci era entrato Da Mimmo con un amico pronto a divorare la solita capricciosa. I tavoli, però, erano tutti occupati. A papà bastò un attimo ed ebbe un’idea. Vide due signorine che cenavano da sole e chiese loro di poter far accomodare al loro tavolo, indicandoli, due poveri ragazzi affamati. Le ragazze accettarono di buon grado e il destino fece il suo corso. Il Bucci conobbe Mariangela – da lui ribattezzata subito Marià, contraendo il nome all’abruzzese – se ne innamorò e molto presto le chiese di sposarlo.
La sera, Da Mimmo, il Bucci risponde anche al telefono e lì non ha eguali. “Pronto, quanti ne siete – lui è rimasto abruzzese – a che ora venite? Non sento. Vabbè attacco perché non sento”. Surreale. Sembra quasi che la famosa scena del doganiere di “Non ci resta che piangere” l’abbiano ideata ispirandosi a lui.
Comunque, di partite della Roma non ne perde una, anche quando è alla cassa. Va bene conservatore e sentimentale, ma oggi c’è l’iPad. Così, tra un conto e l’altro, lo vedi fremere per la “Maggica”. Quando segna la Roma non riesce a trattenersi e gli scappa sempre un “Evvai!”. I clienti abituali ormai lo sanno, lui non è solo un cassiere, è il Bucci: “giallo come il sole, rosso come er core mio”.