- Nato in Città Alta
Non sono capace
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Inebriato dalle carezze che solo il vento in faccia sa donarti, scorrazzavo in motorino su e giù per la Boccola e Castagneta, ma non sapevo ancora stare a galla.
Ho imparato tardi a nuotare. A differenza della maggior parte dei miei coetanei, ero sfuggito a quell’opinione diffusa, quasi un diktat cinquant’anni fa, che considerava il nuoto la soluzione ideale, se non l’unica, per sviluppare sin da piccoli un corpo sano, forte e armonioso.
In sensibile ritardo rispetto ai miei amici, un bel giorno, anch’io dovetti fare i conti con questa imposizione dall’alto.
Forte della sua educazione che rasentava quella militare, mio padre riteneva un obbligo rispettare qualunque indicazione provenisse “dall’autorità”. Che poi fosse la maestra elementare o il Presidente della Repubblica, il medico di famiglia o il Papa, cambiava poco. Lo faceva sentire parte di un Paese. Il suo Paese: l’Italia.
Fu così che, contro la mia volontà, mi iscrisse a un corso di nuoto. Ed eccomi lì, in compagnia di bambini e bambine assai più giovani di me, a sguazzare nell’acqua, puntualmente fredda e satura di cloro, della piscina del Seminario, in Città Alta.
Per me esisteva un solo sport da praticare. E non serviva mettersi il costume e gli occhialini, bastavano un pallone di cuoio e delle scarpe con i tacchetti. Non mi dispiacevano nemmeno il tennis e il ciclismo. Il nuoto, invece, era un’attività sportiva che su di me non esercitava alcun fascino. Anche se, devo confessarlo, la verità è che avevo una paura tremenda dell’acqua.
Almeno quattro ore tra il pasto e il bagno.
Al mare c’ero andato poco. Qualche volta in Calabria a trovare zii e cugini, ma il tempo lo si trascorreva soprattutto in barca o in campagna. Con la famiglia ero stato più di un’estate in quelle meravigliose località balneari della riviera romagnola che sono luoghi dove vai per divertirti, non per perfezionare le tue scarse doti di nuotatore.
I lidi dell’Adriatico fornivano mille spunti e distrazioni. Tra tavoli da pingpong e racchette per il volano – che oggi tutti chiamano badminton – i castelli di sabbia e la pista per le biglie con i ciclisti, il tempo trascorreva veloce. Ai cavalloni e al materassino rinunciavo senza alcun rimpianto.
Avevo timore dell’acqua, anche perché mio padre aveva fatto suo un altro dogma degli anni Settanta: tra un pasto e il bagno in mare dovevano passare almeno quattro ore. Vuoi per la sana e robusta colazione mattutina, vuoi per una bella porzione di lasagne a pranzo, io in mare andava a finire che non ci entravo mai. Per fare il bagno, io e i miei fratelli dovevamo aspettare quasi mezzogiorno, ma dopo un quarto d’ora, ad andar bene venti minuti, dovevi uscire dall’acqua per sederti a tavola.
Rammento bene il nostro sconforto, misto a invidia, nel vedere i bambini tedeschi tuffarsi tra le onde senza dover richiedere permessi o autorizzazioni speciali. Anche dopo essersi ingozzati di panini, toast e gelati. Per noi, al contrario, il divieto assoluto di entrare in acqua poteva scattare per un Buondì Motta o un ghiacciolo al tamarindo che, per il colore, veniva spesso spacciato come “gusto coca-cola”.
E ora eccomi lì, in piscina, per rimediare alle mancanze dell’infanzia. La mia totale assenza di entusiasmo era nota anche agli istruttori, i quali mi tenevano d’occhio, severi, mentre dilatavo a dismisura il tempo dedicato agli esercizi di riscaldamento prima di tuffarmi in acqua.
A quel tempo, i metodi bruschi degli istruttori erano una prassi consolidata. Più di una volta mi è capitato di essere acchiappato a tradimento e scaraventato in acqua tra le risate di papà. Del resto, per lui, anche l’istruttore di nuoto era un degno rappresentante delle istituzioni.
Per vincere un poco la paura fantasticavo su delfini e megattere. Queste ultime così pacifiche, enormi e protettive, un po’ come la balena di Pinocchio. Ma se anche solo per un attimo i pensieri andavano al piranha o al barracuda, il desiderio di raggiungere al volo gli spogliatoi era difficile da reprimere.
Un bel carico da undici.
Un tardo e sonnolento pomeriggio invernale, conclusa la mia ora di tortura in acqua, riconobbi a bordo vasca un ragazzo che incrociavo spesso in Città Alta. Aveva un paio d’anni più di me, gli occhi scuri e i capelli arruffati. Camminava ondeggiando perché da piccolo, mi aveva spiegato papà, era stato colpito dalla poliomielite che gli aveva reso una gamba più sottile dell’altra.
Dopo aver sciolto con cura i muscoli delle spalle, il ragazzo si tuffò senza sollevare il minimo schizzo, iniziando subito a nuotare a rana in bello stile. Sembrava scivolare sull’acqua sospinto da una forza segreta. Procedeva veloce, con la sola spinta delle braccia, senza alcuno sforzo apparente, cadenzando il respiro alla perfezione, come ci insegnavano gli istruttori.
Papà non si fece certo sfuggire l’occasione per farmi notare l’abilità di quel ragazzo, mettendoci pure un bel carico da undici manco stessimo giocando a briscola: “Non dire più che non sei capace”. Sottintendendo che se quel ragazzo, vincendo i suoi limiti, era in grado di nuotare a quel modo, con lo stesso impegno io avrei potuto gareggiare alle Olimpiadi.
Mens sana in corpore sano.
Il mio orgoglio era ferito, per non dire agonizzante. Davanti a me vedevo due alternative: sentirmi in colpa per non essere capace di nuotare come si deve o ammettere un dato di fatto, l’essere totalmente negato per il nuoto.
Restai a lungo in bilico tra le due opzioni senza decidere quale accettare, fino a quando, a mia volta diventato papà, replicai per filo e per segno tutto ciò che di sbagliato aveva fatto mio padre con me, sostenuto dalle sue stesse e identiche buone intenzioni.
Mio figlio, il più grande, non ha mai voluto saperne di praticare dello sport. Calcio, basket, tennis, tanto meno il nuoto. Era interessato ad altro. Un pensatore dichiarato. L’attività fisica non era contemplata nella sua acerba, ma già ben definita, visione della vita.
Non serve scomodare Giovenale e le sue satire, poiché lo sanno tutti: mens sana in corpore sano. Quindi, una soluzione dovevo trovarla.
Scartato per motivi pratici il pur affascinante lancio del palo che fanno in Scozia, un tronco di larice alto circa sei metri e pesante intorno ai 50 chili, optai per la bicicletta.
Con le rotelle, senza le rotelle, fu uno strazio, ma ero deciso a non demordere. Fui inflessibile e refrattario a ogni sua lamentela, fino al giorno in cui lui prese la bici, la abbandonò nel sottoscala e mi affrontò con determinazione: “Ti ho detto che non sono capace!”
Non fece a tempo a ultimare quella frase che mi apparve mio padre, in piscina, a indicarmi quel ragazzo apparentemente sfortunato ma tanto più bravo di me.
Dovremmo prendere il via tutti dallo stessa linea di partenza, con gli stessi mezzi e le stesse opportunità.
Mi sono chiesto il perché, di generazione in generazione, ripetiamo gli stessi errori. È un circolo vizioso a cui sembra impossibile sottrarsi. I buoni propositi svaniscono alla prima difficoltà, come il profumo del biancospino al minimo alito di vento.
Dovremmo prendere il via tutti dallo stessa linea di partenza, con gli stessi mezzi e le stesse opportunità. Ma non è possibile. Di certo, però, possiamo aspettarci l’un l’altro per arrivare insieme. Chi è capace e chi non è capace.
In estate, le poche volte che mi concedo qualche bracciata nel verde smeraldino del mare di Sardegna, ripenso a quel ragazzo che, nella vita, è diventato un ingegnere e un campione di scacchi, oltre ad essere rimasto un ottimo nuotatore.
Mio figlio invece continua a non praticare alcuno sport ma si è laureato in filosofia con il massimo dei voti. È convinto di cambiare il mondo e spero ne sia capace. Almeno un po‘.