• Nato in Città Alta

Vammi a prendere gli stracci

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Con la camicia bianca sempre slacciata ai polsi e il gilet nero di una taglia in meno, Battista si muoveva sicuro dietro al bancone del bar di Mimmo.

Il suo compito, almeno durante il pranzo e la cena, era quello di preparare i caffè da portare ai tavoli.

Il resto della sua giornata lo impiegava tra piccole mansioni e ruoli di fatica, favorito dal fisico robusto. Lo osservavo sollevare le casse di acqua minerale sistemandole senza la minima fatica una sopra l’altra. Sempre in silenzio. Tanto che, per un bel po’, pensai addirittura fosse muto.

Qualche volta lo vedevo ridacchiare per conto suo. Erano risate sommesse che anziché inquietarmi aumentavano il mio interesse per quel ragazzo fuori scala così strano e misterioso.

Un pomeriggio mollai all’improvviso libri e quaderni sul tavolo e mi avvicinai a lui. Senza preamboli, come può fare un bambino di dodici anni, gli chiesi: “Ciao Battista, perché non parli mai? E perché ridi da solo?”.

Fece una smorfia che voleva assomigliare a un sorriso e sottovoce mi disse: “Lo sai che io non ho mai visto il mare?”. Io lo guardai stupito e gli risposi “Vabbè, ma cosa c’entra?”. Lui insistette: “A Bergamo c’è un mare bellissimo e io non l’ho mai visto”.

Questa nostra prima conversazione dai tratti surreali non fece altro che aumentare la mia curiosità nei suoi confronti. A poco a poco, instaurai un dialogo con Battista, fondato sulle mie domande sempre molto dirette e le sue risposte imprevedibili. Mi parlava di uomini in camice bianco che facevano esperimenti sul suo corpo, di un vento così prepotente da sollevarti e portarti in Olanda. Raccontava del grano che cresceva sui muri, di treni che volavano e aerei che bloccavano il traffico in città.

Che Bergamo non avesse il mare lo sapevo benissimo, così come non ci fosse del vero nei suoi racconti, ma forse nella testa di Battista era tutto reale e viaggiava sull’orlo di un’apparente e tranquilla normalità.

Un pomeriggio, con i gomiti appoggiati al bancone del bar e la voce ridotta a un sussurro, mi disse che la notte precedente lo avevano trasformato in una gallina. Non feci in tempo a chiedere delucidazioni quando dalla sala giunse perentoria la voce di mia madre: “Battista, vammi a prendere gli stracci”.

In un attimo mi ritrovai nel film di spionaggio che avevo visto in tv la sera prima. L’espressione sul viso di Battista divenne serie e concentrata, strinse gli occhi e, come se avesse ricevuto un comando in codice, eseguì immediatamente l’ordine ricevuto.

La cosa si ripeté altre volte. “Battista, vammi a prendere gli stracci” e lui, come ipnotizzato, svolgeva all’istante il compito assegnato.

Una sera mi decisi a chiedere a mia madre perché Battista fosse così strano. Riservata come era non amava parlare degli altri e dei loro problemi, però mi disse che non era strano ma malato. Era schizofrenico e quando non prendeva le sue medicine – e ogni tanto capitava – diceva cose prive di senso. Mio padre, più disinvolto nell’affrontare l’argomento, mi raccontò che Battista era rimasto orfano di padre da bambino. Suo papà era stato investito da un’automobile mentre andava a lavorare in bicicletta. La madre, che già soffriva di un esaurimento nervoso, perse completamente il senno e ora era ospite di un ospedale psichiatrico.

Ora capivo perché mia mamma lo mandasse a prendere gli stracci. Come quando qualcuno ti distrae da un incubo costringendoti a contare, gli faceva compiere un gesto semplice e ripetitivo per fargli ritrovare il binario su cui far passare quel treno che, certo, non volava ma era bello immaginarlo. In questo modo, poi, Battista aveva un compito ben preciso da svolgere che lo faceva sentire utile, se non addirittura importante. Grazie a quegli stracci, per un attimo si placavano le intemperie nella sua anima.

Locomotive che si lanciavano nel blu dipinto di blu, velivoli mastodontici fermi in Porta Nuova, ma era il giorno di paga in cui restavo veramente a bocca aperta.

Quando Battista riceveva lo stipendio non perdeva tempo. Si recava il giorno stesso in un elegante negozio di abbigliamento di Città Bassa, sempre il medesimo, e spendeva in pochi minuti tutto quello che aveva guadagnato in un mese.

Lo ricordo entrare da Mimmo azzimato come un damerino: cappotto color cammello impreziosito dal collo di pelliccia, giacca doppiopetto, cravatta regimental e scarpe lucide di vernice. Era un altro Battista, un uomo della domenica che si presentava al mondo come se la vita fosse cominciata il giorno esatto in cui aveva ricevuto lo stipendio.

Al ristorante tutti quanti ridevano di questo spettacolo buffo e, in verità, irresistibile. Tranne mia madre. Alla terza volta in cui si ripeté l’accaduto, prese il telefono e chiamò il negozio per ammonirli: che non gli facessero più spendere i soldi in quel modo.

Non era abbastanza, Battista andava protetto. Le sue necessità erano limitate, le sigarette nazionali senza filtro e poco altro, così mia mamma decise di trattenergli lo stipendio, accantonandone la maggior parte, dandogli solo diecimila lire ogni tanto e chiedendogli tutte le volte per cosa gli sarebbe servito il denaro.

Un paio d’anni scivolarono via e a Battista venne riconosciuta una pensione d’invalidità. Non lo vidi più, finché un giorno, cresciuto abbastanza per andare al liceo in Vespa, mentre ero fermo a un semaforo mi passò davanti. Attraversava incerto la strada fermando il traffico con una mano, una borsa della spesa nell’altra e una sigaretta senza filtro penzolante tra le labbra.

Non so perché ma non ebbi il coraggio di fermarlo. Lui incrociò il mio sguardo ma non mi riconobbe, spense la sigaretta per terra ed entrò in una chiesa lì vicino, forse a pregare, oppure per parlare con un prete o dio stesso, nella speranza di sentire ancora una volta: “Battista, vammi a prendere gli stracci”.