• Due calci al pallone

I miei Mondiali, quelli del ‘74

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Nel corso del fluire tumultuoso e imprevedibile della propria esistenza ci sono momenti in cui si ha la netta percezione di assistere a qualcosa di straordinario e che forse non si ripeterà mai più.

Nel mio caso furono i Mondiali del ’74. E non sto parlando solo di calcio, ma di storia e politica, talento e bellezza.

In quella lunga estate calda che flagellò il nostro Sud con la siccità, dal 13 giugno al 7 luglio rimasi incollato allo schermo del nostro Super Color Grundig. Sì, perché per la prima volta i Mondiali erano a colori. Il verdeoro del Brasile e l’azzurro dell’Italia, le strisce verticali bianche e celesti dell’Argentina, la maglia rossa e i calzoncini neri di Haiti, ma soprattutto un colore nuovo e brillante: l’arancione dell’Olanda.

Arancia Meccanica, la chiamarono subito così, per la precisione nei meccanismi di gioco o forse per il senso di impotenza e sgomento che suscitava negli avversari. Una squadra meravigliosa, con un portiere che usciva fino a metà campo per giocare la palla con i piedi e non usava i guanti perché voleva “sentire” il pallone agguantandolo a mani nude. Marxista e tabaccaio, si chiamava Jongbloed, che in olandese si pronuncia: ˈjɔŋ.blut.

E poi il più grande di tutti, Johan Cruijff, leader carismatico di una squadra con i numeri sulle maglie messi apparentemente a caso, dove il difensore attaccava e l’attaccante difendeva. Avevano tutti i capelli lunghi, fumavano al termine dell’allenamento e avevano mogli e fidanzate in ritiro, una cosa inconcepibile per noi italici bacchettoni. Era calcio totale, esempio perfetto di modernità liquida e forse l’unica forma di comunismo mai riuscita.

“Tu sei Cruijff e io Rivera”. Io e mio cugino iniziavamo la giornata così, giocando a pallone nel retro del ristorante, per poi metterci davanti al televisore a guardare tutte ma proprio tutte le partite. Haiti contro la Polonia o l’Australia contro il Cile, scoprendo giocatori mai sentiti prima, come il paffuto centrocampista dello Zaire Mafu Kibonge o Ladislao Mazurkiewicz portiere dell’Uruguay.

L’Italia si presentava da vicecampione del Mondo e sembrava aver risolto il dilemma Mazzola/Rivera, la cui staffetta al precedente Mondiale messicano aveva generato dissapori infiniti. I due ora giocavano insieme in un attacco che in prima fila aveva gente come Gigi Riva e Giorgione Chinaglia.

Che quel Mondiale per noi italiani sarebbe stato fonte di sofferenza lo capimmo già alla partita d’esordio, quando al primo minuto del secondo tempo l’haitiano Emmanuel Sanon bucò inaspettatamente Zoff mettendo fine al suo record di imbattibilità: 1.142 minuti.

Alla fine, vincemmo 3 a 1 ma nell’aria si coglieva l’odore pungente della discordia. I giocatori che militavano nelle squadre del nord contro i laziali neo scudettati, Causio che voleva giocare ala destra dove c’era già Mazzola, Chinaglia che in mondovisione mandò a quel paese il nostro allenatore. Quel Ferruccio Valcareggi da Trieste che Gianni Brera definì “brachipsichico” per la scarsa reattività nel prendere le decisioni, per lo più sbagliate.

Litigi e complotti, sussurri e grida, per un melodramma italiano che la mattina si trasferiva nei bar tra chi sosteneva che “Rivera ormai casca in terra da solo, Mazzola è solo un presuntuoso, Benetti è meglio che pensi ai suoi amati canarini e Gigi Riva, vabbè, non è più Rombo di tuono”.

Per fortuna non c’era solo l’Italia e il 22 giugno 1974 potei assistere a una partita che entrò di diritto nei libri di storia. Nella prima fase a gironi, infatti, le burle di un destino ineffabile misero di fronte le due Germanie, quella dell’Ovest e quella dell’Est.

In quell’occasione a dividerle non c’era un muro ma una riga di gesso, quella tracciata a centrocampo sul prato ben rasato del Volksparkstadion di Amburgo. Da una parte i tedeschi dell’Ovest con le loro eleganti divise bianche e nere, dall’altra le umili magliette blu recanti sul petto i simboli dell’identità operaia, del progresso tecnico e del collettivismo contadino: martello, compasso e una corona di segale.

Stretti tra loro, gli 8.000 tifosi della Germania Est erano giunti nella città anseatica grazie a un visto speciale, controllati a vista da membri della Stasi abilmente confusi tra loro. Abbigliati con giacche e pantaloni fuori moda cercavano di immaginarsi le vite dei loro fratelli comodamente seduti sugli spalti opposti.

La Germania Ovest, padrona di casa, schierava giocatori leggendari come Franz Beckenbauer e Paul Breitner, al centro dell’attacco Gerd Müller e tra i pali Sepp Meier. C’era anche Hans-Georg Schwarzenbeck, tutta la vita al Bayern Monaco, il cui solo nome traboccante consonanti incuteva timore e rispetto negli avversari, anche a me che ne ammiravo i decisi recuperi difensivi in tv.

Kaiser Franz e i suoi compagni erano certi di vincere, anche perché nell’altra Germania il calcio era ritenuto uno sport minore rispetto all’atletica o alla boxe, ben più utili alla propaganda comunista. Invece, quel giorno Eupalla – la divinità che presiede alle vicende del pallone – si divertì a sovvertire il pronostico. Epigono degli eroi celebrati da Omero fu Jürgen Sparwasser che, al minuto 77, con una splendida giocata disorientò la difesa occidentale per poi trafiggere l’incredulo Meier con un preciso diagonale.

Oltrecortina, Sparwasser diventò l’emblema dell’inarrestabile vento dell’Est, ma 14 anni più tardi, approfittando di un’amichevole tra vecchie glorie delle due Germanie a Saarbrücken, nell’Ovest, Jürgen decise di non tornare più a casa, dove un’auto Trabant costava come un pezzo di ricambio di una BMW. Al comitato centrale del Partito Socialista qualcuno la prese malissimo: “Tutti, ma non Sparwasser!”.

Quei Mondiali del ‘74 che cambiarono per sempre la mia vita mostrarono a tutto il pianeta la supremazia del calcio totale proposto dagli olandesi. Nulla sarebbe stato più come prima.

La partita che pervenne a simbolo di quel passaggio di consegne epocale fu la semifinale tra Olanda e Brasile. Uno scontro tra due culture calcistiche opposte, due stili di vita differenti, in campo e fuori.

Fu un incontro perennemente al limite della rissa. Calci, botte e spintoni: mai ai Campionati del mondo si era vista una sfida tanto violenta. Non si sa come, l’arbitro riuscì a portare a termine la partita con soli tre cartellini gialli e un’espulsione.

Vinse l’Olanda 2 a 0 e di indimenticabile resta il raddoppio di Johan Cruijff in spaccata, un gesto sublime eseguito con la grazia di Rudolf Nureyev. Al termine della partita, il capitano dei tulipani pronunciò una delle sue frasi più iconiche: “Giocare a calcio è molto semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia”.

Venne il giorno della finale. All’Olympiastadion di Monaco di Baviera si affrontarono le due squadre più forti: Germania Ovest e Olanda. Fedeli al nostro rito scaramantico, io e mio cugino ci sdraiammo sotto al tavolo del salotto di fronte al televisore. Il nostro cuore batteva all’unisono fantasticando sulla vittoria della squadra in divisa arancione ma, come spesso accade, le rivoluzioni restano un sogno e la Coppa del Mondo venne alzata dai tedeschi.

Del resto, molti anni dopo, l’inglese Gary Lineker, un ottimo attaccante divenuto con il tempo un altrettanto valido commentatore sportivo, sintetizzò magistralmente: “Il calcio è un gioco elementare: ventidue giocatori che rincorrono un pallone e alla fine vince la Germania”.