• Nato in Città Alta

Cartoline da un ristorante

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Corro. In continuazione. Da una sala all’altra del ristorante, dalla cucina alla terrazza. La mia vita è questa da quarant’anni e non mi dispiace affatto.

Di tanto in tanto, però, mi fermo. Così, di punto in bianco, attratto da qualcosa di magnetico.

Sono le fotografie appese alle pareti. Le conosco a memoria, ma non c’è volta in cui il cuore non faccia un sobbalzo nel rivedere i volti di alcuni camerieri, a me cari, che hanno lavorato qui, Da Mimmo.

Le giacche bianche, i pantaloni con la riga ben stirata. I papillon stretti al collo che sembrano falene, grandi e nere, sottratte a un collezionista di farfalle. E poi le capigliature. Mai un capello fuori posto, grazie all’uso abbondante di brillantina.

Osservo quelle posture un po’ rigide da foto ricordo scolastica. I sorrisi convinti di qualcuno, gli sguardi persi di qualcun altro, ma tutti persuasi che quello fosse il lavoro più avventuroso del mondo, che bastassero scarpe buone e gambe forti per poterlo fare.

Ogni cameriere che è passato di qui, ed è rimasto almeno un po’, ha avuto una parte, grande o piccola, nella mia iniziazione alla vita, nel mio incedere a tratti faticoso verso l’età adulta. Per tutti loro provo affetto e riconoscenza.

Il miglior cameriere del mondo

C’era Giorgio, chiamato da tutti Giorgino per la sua magrezza. Le spalle strette e ossute, un naso adunco e pronunciato, a cui bastava mezzo bicchiere di vino o un amaro per renderlo rosso come un peperone.

Non l’ho mai sentito dire una parola di troppo. Elegante nei movimenti, sempre educato e accogliente, con disinvoltura e spontaneità. Era convinto di essere il miglior cameriere del mondo e probabilmente lo era.

Alla scuola alberghiera, Giorgino aveva appreso che i clienti sono tutto, soprattutto quelli abituali. Di loro ricordava ogni dettaglio e preferenza. A quell’habitué che sarebbe arrivato per cena, ci pensava già dalla mattina. Allestiva il suo tavolo collocando una sorta di leggìo vicino al bicchiere, in modo che il “dottore” – perché i clienti abituali sono tutti “dottori” – potesse appoggiare il giornale e leggerlo mentre gustava la parmigiana di melanzane che lui gli avrebbe proposto.
A una prima impressione non lo dava a vedere ma, dietro quel sorriso perennemente stampato sul viso, nell’animo sensibile di Giorgino albergava un temperamento malinconico. Soffriva di quella che i romantici chiamavano melanconia. Una tristezza, ora vaga ora profonda, che se prendeva il sopravvento lo portava a bere un bicchiere di troppo, facendo assumere al suo naso sfumature tra il vermiglio e il rosso pompeiano.

Per fortuna, tutto ciò accadeva di rado, ma quando succedeva mia mamma non ci pensava due volte e telefonava alla moglie che, con grande imbarazzo, veniva a prenderlo e lo portava a casa. In una di quelle sventurate occasioni, ricordo di aver incrociato lo sguardo di mia madre. Era eloquente: chi siamo noi per giudicare? Vi era solo muta comprensione per le debolezze altrui. Gli occhi bassi a tradire il suo disagio, trascorsi un paio di giorni, Giorgino si ripresentava Da Mimmo deciso a non abdicare: voleva essere ancora lui il miglior cameriere del mondo.

Gli uomini in divisa non li amava, ma del suo anno di militare trascorso in marina aveva solo splendidi ricordi.

Un vero fenomeno, invece, era Gianni il bello. Intraprendente ed estroverso, in sala e nella vita. Innamorato perso del rock’n’roll, era anche un abile ballerino, pronto a esibirsi ad ogni occasione che gli si presentasse.

Quel soprannome se lo era guadagnato al ristorante per via della sua pettinatura: un ciuffo di capelli rialzato sopra la fronte proprio come il suo amato Elvis Presley e, da noi, reso celebre da Little Tony e Bobby Solo.

Veniva da Gaeta, cittadina laziale affacciata sul mare, da sempre associata al suo carcere militare. Una costruzione antichissima, che prima di diventare un penitenziario fu un castello, eretto addirittura nel VI secolo all’epoca dell’invasione dei Goti. Fu poi Federico II di Svevia che, durante il periodo delle lotte con il papato, ne intuì la posizione strategica e lo fece fortificare.

Gianni il bello ci assicurava che metà degli abitanti di Gaeta campavano grazie al carcere, non solo le guardie e i marescialli. Gli uomini in divisa non li amava, ma del suo anno di militare trascorso in marina aveva solo splendidi ricordi.

Gli episodi da raccontare non finivano mai. Come quella volta in cui si trovarono in mezzo al Mediterraneo e, scarseggiando l’acqua, per fare il pane impastarono la farina con la pipì di ogni marinaio, per precauzione fatta prima bollire.

Chissà se era vero? Come tutti i marinai le sparava grosse, ma i suoi racconti erano sempre divertenti, soprattutto quelli dedicati alle sue peripezie sentimentali. Si spacciava per un gran seduttore, ritenendosi avvantaggiato dalla sua irresistibile acconciatura. Nemmeno lui, però, sapeva che quella pettinatura esibita con tanta vanità non l’aveva inventata Elvis, bensì Jeanne Antoinette Poisson – più nota come Madame de Pompadour – a metà del Settecento.

Te la do io l’America

E che dire di Massimo? Sempre con un fumetto di Braccio di Ferro in tasca, guidava con orgoglio la sua Citroen CX Pallas che, a quanto diceva, aveva acquistato di seconda mano da un cuoco conosciuto a Cervia, qualche anno prima, dove era stato per la stagione estiva.

Quando guidava la sua Pallas, si sentiva il padrone del mondo. Abbassava completamente il finestrino, pure d’inverno, sporgendo il braccio con spavalderia mentre si accendeva l’ennesima Gauloises.

Massimo, per tutti noi “Popeye”, assomigliava a Phil Collins. Due gocce d’acqua anche nell’altezza, entrambi poco più di 1 e 65. Non sognava di essere il batterista dei Genesis ma di vivere in un road movie americano. E non c’è film a stelle e strisce senza una storia d’amore. Così si innamorò di una ragazza con i capelli rossi, una spanna più alta di lui, che Da Mimmo faceva la lavapiatti.

Con lei, girovagava su e giù per i Colli a bordo della sua fuoriserie, elogiando a ogni curva le avveniristiche sospensioni idropneumatiche di cui era dotata. Le faceva ascoltare canzoni americane che parlavano di spazi immensi, amore e libertà, promettendole che un giorno l’avrebbe portata là, in Texas o in California.

Erano una coppia decisamente insolita. Lui piccolo e magro, lei alta e in carne, con occhi azzurri profondi e austeri, quelli di chi voleva vederci chiaro nelle promesse a dir poco fantasiose di Massimo “Popeye”.

Un bel giorno non lo vidi più. Il Genio, l’unico di cui mi fidavo ciecamente, mi disse che era finito nei guai a causa della sua adorata Citroen CX Pallas. Non era sua e non c’era nessun cuoco di Cervia che gli aveva venduto la macchina.

La ragazza con i capelli rossi ci rimase malissimo. Fu davvero triste vederla piangere mentre lavava le stoviglie. Acqua, detersivo e lacrime per far splendere come non mai piatti e bicchieri.

Un cappuccino in piazza San Marco

In questo circo Barnum che a volte mi sembrava il nostro ristorante, non poteva mancare la stravaganza irrefrenabile di Tito, il “pazzo” come lo chiamavamo noi. Un pizzaiolo impeccabile nello svolgere la sua mansione, che amava stupire con imprese sconclusionate su cui raccoglieva scommesse e, spesso, ci guadagnava.

Come quella volta che, terminato il servizio di sabato sera, ben oltre la mezzanotte, fece salire tre dei suoi colleghi sulla sua Alfasud rosso corallo – con un’antenna talmente lunga che passava a malapena sotto i ponti – per andare a Venezia a bere un cappuccino al Caffè Florian, sotto i portici delle Procuratie Nuove in piazza San Marco. Il tutto, scommettendo che sarebbe tornato in tempo per il servizio della domenica mattina.

Vinse la scommessa: diecimila lire. Uno dei colleghi, però, sosteneva con decisione che, avendo puntato anche lui sulla riuscita dell’impresa, era giusto spartire la vincita. Dopo una discussione interminabile durata a più riprese per tutta la mattinata, Tito uscì spiritato dalla cucinabrandendo un trinciapollo. Prese le diecimila lire e, davanti al compare, tagliò in due la banconota mettendogli in mano una delle due metà.

Sento il mio nome ripetuto ad alta voce con intensità crescente.

Mi chiamano dalla cucina, c’è un piccolo problema con il fritto di paranza, troppe richieste e il pesce sta terminando. Così mi risveglio bruscamente dalla trance in cui ero sprofondato.

Un’ultima occhiata a Tito in bianco e nero, sorridente vicino a papà, e posso ricominciare a correre.

Oggi, tutti questi personaggi, unici e inimitabili, sono fotografie appese alle pareti del locale. Incorniciati per l’eternità su carta spessa e lucida, con un vetro antiriflesso a proteggerli dagli sguardi indelicati dei clienti più curiosi.

Il tempo scorre irreparabilmente e le cose passano. Forse troppo velocemente. Ma qualcosa resta, queste cartoline da un ristorante che grondano memoria, tenerezza e infinita poesia.