• Due calci al pallone

Il diavolo e i tulipani

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E sono ancora qui, a raccontar di tulipani e della Casa d’Orange-Nassau, di maglie arancioni e calcio totale. Ma anche dello stupore di fronte alla bellezza e dell’iniziazione alla vita.

Nell’adolescenza di ognuno di noi, se non addirittura nell’infanzia, esiste un momento precisoin cui si inizia davvero a comprendere “come vogliamo essere da grandi.

Non tanto “chi”, ma come desideriamo porci nei confronti del mondo e della realtà. Con quale stile e con quale spirito affronteremo le gioie e i pericoli che il destino collocherà sul nostro cammino. Seguendo la nostra indole, in quell’istante esatto, comincia a farsi strada, in noi, l’idea di bellezza e di giustizia che ci accompagnerà lungo l’intera nostra esistenza.

È un momento a volte impercettibile, celato tra le pieghe della gioventù, quando il corpo è ancora incerto e la mente un po’ ingarbugliata. Può accadere ascoltando una canzone, vedendo un film, leggendo un libro.

A me è successo a nove anni compiuti da poco, nell’addentare una fetta di pane e nutella, guardando una partita di calcio. Non una sfida qualunque, ma l‘esordio dell’Olanda ai Mondiali del 1974, vinto per 2 a 0 contro l’Uruguay, grazie alla doppietta di un implacabile Johnny Rep. 

Una luce mai vista

In quei novanta minuti e poco più ammirai un gioco completamente diverso da quello che seguivo con la Serie A. Elegante, fluido, giocato da uomini che sembravano danzare con la palla.

Tagli e sovrapposizioni, di certo provati e riprovati in allenamento, che, anziché offrire l’immagine di un calcio asettico, ingabbiato in tattiche e schemi, comunicavano un senso di assoluta libertà.

Non me ne resi conto subito ma, in virtù di quella partita capii quale sarebbe stato il mio approccio alla vita, nelle questioni di fondamentale importanza come in quelle trascurabili.

L’arancione di quelle maglie rappresentava molto di più di un colore: era una visione, una filosofia, un modo di stare al mondo. Così come quella trama di passaggi filtranti, tanto esatti quanto imprevedibili, rivelava una luce mai vista.

È grazie a quell’Olanda che ho pensato, per la prima volta: giocare bene è più importante di vincere. Una pietra angolare del mio pormi rispetto alla vita.

No ve dovete preoccupar, i ze fati de carne anca loro.

Prima di quel pomeriggio, per me, l’amore per il pallone ha coinciso sempre e solo con il Milan. Un primo contatto tra il calcio olandese e i colori rossoneri avvenne nel 1969, in finale di Coppa dei Campioni, quando allEstadio Santiago Bernabeu di Madrid si affrontarono il Milan e l’Ajax di Amsterdam, la squadra che in quel periodo, e negli anni a venire, rappresentava l’ossatura della nazionale dei Paesi Bassi.

I rossoneri schieravano tre attaccanti formidabili e all’apice della loro carriera: Pierino Prati, Angelo Benedicto Sormani e Kurt Hamrin, soprannominato “l’uccellino” per la sua corsa leggera e veloce. Dietro a loro, la classe immensa del primo pallone d’oro italiano: Gianni Rivera.

Prima della partita, l’allenatore del Milan Nereo Rocco cercò di tranquillizzare i suoi giocatori intimoriti dal gioco armonioso e scintillante di quegli olandesi che, in mezzo al campo, potevano contare su Johan Cruijff, una stella che avrebbe brillato luminosa nel firmamento del pallone per tutti gli anni Settanta.

Quel triestino così schietto e pragmatico rincuorò i suoi ragazzi con una frase delle sue, semplice e diretta:No ve dovete preoccupar, i ze fati de carne anca loro”.

Vinse il Milan per 4 a 1, con tre gol di Prati. L’ultima rete, indimenticabile, a seguito di un passaggio a pallonetto di Rivera, dopo che il golden boy aveva scartato mezza squadra olandese. Ancora oggi, vado a rivederla su YouTube e mi emoziona ogni volta.

Archiviata quella sconfitta, per l’Ajax iniziò un periodo superlativo, culminato con tre anni di dominio assoluto, in patria e in Europa, in cui vinse tre Coppe dei Campioni, una in fila all’altra.

Un club vincente che già nel nome grondava fascino. Ajax non è altro che Aiace Telamonio, l’eroe omerico famoso per il suo coraggio e la sua abilità nell’uso della lancia. È il motivo per cui i suoi giocatori sono chiamati i lanceri.

Il diavolo e i tulipani. Due squadre, due culture che hanno contribuito alla mia formazione, con idee e gesti tecnici che, nella sostanza, erano scelte di vita.

Una storia d’amore

E poi successe veramente ciò che non avrei mai sperato. Il Milan e l’Olanda, una storia d’amore che si avverò alla fine degli anni Ottanta grazie ad Arrigo Sacchi in panchina e tre olandesi in campo: Van Basten, Gullit e Rijkaard.

I miei colori prediletti e le filosofie si fusero in una squadra meravigliosa, che proponeva un gioco atletico e spettacolare. Per me fu l’apoteosi, uno dei periodi più esaltanti della mia vita. Il sogno sposò la realtà. E la bellezza fece altrettanto con l’efficacia, come avrebbe detto César Luis Menotti.

Non ho alcun dubbio, la vita si ridurrebbe a fame o sazietà, guerra o pace, vittoria o sconfitta, se non vi fossero l’aspirazione al bello e il desiderio di infrangere le regole, di compiere gesti mai visti prima.

Come quello di Gerrie Mühren, estroso centrocampista olandese, nella semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni del 1973, tra Ajax e Real Madrid.

All’andata, i “lanceri” hanno vinto in casa per 2 a 1 e ora si gioca in Spagna. All’inizio del secondo tempo, l’Ajax passa in vantaggio con una rete di Mühren. Trascorre qualche minuto e, lo stesso Mühren, vicino al cerchio di centrocampo, addomestica dolcemente una palla ricevuta da un traversone del suo compagno Wim Suurbier.

Gerrie non le fa toccare terra e si mette a palleggiare. Si passa il pallone dal piede destro a quello sinistro per ben quattro volte, ammutolendo i 90.000 spettatori presenti quella sera al tempio delle Merengues.

Nascere a Volendam

Non voleva essere un gesto irriverente, era pura eleganza. Ed esprimeva la stessa gioia di un bambino che gioca nel cortile di casa. Quando non vi è nulla in palio e l’unica cosa che conta è il suono dei tuoi tocchi al pallone.

Mühren era un nederlandese di Volendam, la città meno olandese d’Olanda. Un villaggio di pescatori noto per le sue case colorate e i kibbeling”, deliziosi bocconcini di pesce fritto.

Quando gli chiesero quale fosse il segreto della creatività che caratterizzava gli abitanti di Volendam lui rispose che, in realtà, loro avevano sangue iberico. Fu durante una delle tante guerre tra olandesi e spagnoli, avvenute nei secoli precedenti, che un gruppo di uomini provenienti dal nord della Spagna mise radici nel suo villaggio fondendosi con la popolazione locale.

Forse quella sera Mühren si sentiva a casa, spagnolo anche lui, davanti alle camisetas blancas del Real Madrid che da piccolo aveva sognato di affrontare.

Ripensando a quel sabato del giugno 1974 in cui vidi gli Oranje stordire i malcapitati uruguagi, e a quel Mondiale impresso nella mia memoria e in quella di molti miei coetanei, una cosa era certa: per gli olandesi la bellezza era più importante del risultato. Rasentarono la perfezione ma furono sconfitti all’atto finale. Come se vincere fosse inopportuno, una sorta di idea progressista che, a un passo dalla vittoria, ti porta a fermarti e a pensare:Ho altro da fare”.

Dostoevskij ha scritto che la bellezza salverà il mondo. Io l’ho inteso in un pigro pomeriggio d’estate, in cui il mio sguardo si è posato su quelle maglie arancioni in costante movimento. Fu una rivelazione, un telo abbassato senza preamboli per scoprire unopera d’arte, bellissima e sorprendente. E da quel giorno, sul mio futuro ancora tutto da scrivere, hanno inciso più le folgoranti intuizioni di Johan Cruijff che gli insegnamenti di tanti, seppur bravi, maestri.

Gerrie Mühren vs Real Madrid Coppa dei Campioni 72/73 – 👇 Vai al minuto 3:10 del video e vedrai un momento di storia del calcio.

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