• Le storie di Mimmo

Ragazzi, ho fatto una minchiata

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I favolosi anni Sessanta. Quelli del boom, prima demografico poi economico.

Un momento irripetibile della storia del nostro Paese in cui nacquero tanti, tantissimi bambini. Che poi sono i boomer di oggi, quelli che hanno poca dimestichezza con gli strumenti digitali e sono bersaglio di frizzi e lazzi di un popolo senza pietà, quello degli adolescenti.

Su uno di questi boomer, oggi sessantenne, c’è da raccontare una vicenda alquanto originale.

Se adesso da Mimmo senti dialogare in arabo e in cingalese, raccontare barzellette in albanese o richiamare ad alta voce un collega in croato o in qualche lingua africana, negli anni Sessanta, nel nostro ristorante, la situazione non era molto diversa. Era meno internazionale, certo, ma in ogni discorso si intrecciavano il napoletano e l’abruzzese, il bergamasco e il calabrese. In tal modo, alcuni termini dialettali diventavano universali, comuni a tutti. Uno di questi era “minchiata”.

Non mi riferisco al gioco di carte imparentato ai tarocchi in voga nella Firenze del Settecento e che oggi non ricorda nessuno – le “minchiate”, appunto – ma a un termine siciliano decisamente più noto, la cui origine popolare è chiara ed evidente. La sua accezione volgare si è stemperata nel tempo tanto da far assumere a questo sostantivo un altro significato. Il vocabolario Treccani, alla voce “minchiata”, recita testualmente: azione da sciocco, stupidaggine.

In Città Alta, “minchiata” può addirittura diventare un soprannome, perché quella di affibbiare nomignoli e pseudonimi, tra di noi fortunati nati all’interno delle Mura è tradizione tramandata con vanto di generazione in generazione.

I più colti e gli studiosi affermano che l’uso del soprannome permette di individuare con esattezza ogni persona all’interno di una comunità e che, quindi, ha la sua utilità perché non lascia spazio all’omonimia. Nel nostro caso, però, le motivazioni erano per lo più goliardiche, con una buona dose di presa in giro tagliente e senza sconti.

Al centro di questa vicenda c’è un bergamasco “doc”, genuino e orgoglioso della propria stirpe. Questo cuoco abile e navigato ai fornelli un bel mattino si presentò Da Mimmo con un’espressione corrucciata sul volto che male si sposava al suo carattere perennemente allegro e gioviale.

Mentre sorseggiava il suo doppio caffè, addizionato come da abitudine da quattro cucchiaini di zucchero, così da iniziare al meglio la giornata, davanti ai suoi colleghi – camerieri, lavapiatti, ma anche mamma e papà – all’improvviso, e a voce spiegata, esclamò: “ragazzi, ho fatto una minchiata!”.

Silenzio tombale. Ma solo per un attimo. Perché, quasi in coro, tutti quanti gli chiesero a cosa si riferisse. Che minchiata avesse combinato.

Individuata la sedia più vicina, l’uomo si lasciò andare pesantemente su di essa e con il volto tra le mani iniziò il suo racconto. Aveva già quattro figli meravigliosi, li adorava. Confidando nel metodo Ogino Knaus – una pratica anticoncezionale basata sull’osservazione statistica del ciclo di fertilità della donna per individuare i giorni fecondi – pensava di riuscire a mantenere tale il numero dei rampolli.

Non poteva sapere che, negli anni a venire, quel metodo sarebbe stato in parte sconfessato persino dallo stesso medico che lo aveva inventato. Tant’è vero che molti dei bambini nati in quei prolifici anni Sessanta sono con certezza, e a loro insaputa, “figli di Ogino”.

“Ma che sarà mai!”. L’intera brigata iniziò a rincuorarlo. Chi con frasi scherzose e qualche battuta fuori posto. Chi, al contrario, dispensando consigli e perle di saggezza. Mio padre gli ricordò che anche lui di figli ne aveva cinque – che poi in breve tempo sarebbero diventati sette – e che non doveva preoccuparsi: “Stai tranquillo, un lavoro sicuro ce l’hai”.

In quel tripudio di risate, spiritosaggini e suggerimenti non richiesti, stonava l’atteggiamento serio e misurato di mia madre. Anche in quella occasione, era rispettosa degli eventi e votata alla concretezza. Lei ne sapeva più di tutti loro in tema di figli e non apprezzava affatto l’ironia scatenata da quel “ragazzi, ho fatto una minchiata!”, forse pronunciato un po’ a cuor leggero per liberarsi di un peso.

Con cinque figli a carico, uno stipendio solo in casa poteva anche non bastare. Si immedesimava anche nella moglie del cuoco, conosceva bene le fatiche che deve affrontare una donna nel momento in cui diviene madre per la quinta volta.

Passarono le settimane, i mesi, e Da Mimmo si attendeva con trepidazione la nascita di questo bambino, per certo maschio, il cui soprannome era stato già deciso dallo staff. Ed è facile immaginarlo. Il lieto evento si avvicinava e tutti quanti non facevano altro che chiedere al povero cuoco: “Ma allora, quando nasce il Minchiata?”

Sul palcoscenico della vita si alternano di continuo commedia e tragedia. Nel caso di questo bambino, il destino decise di iniziare con una burla.

Oggi lui è un boomer come tanti altri, in difficoltà con la tecnologia e un po’ inquieto nell’immaginare il futuro che verrà. Non se l’è mai presa per lo scherzo di cui è stato oggetto. Sa benissimo che senza quella minchiata, lui non sarebbe mai venuto al mondo. Forse è per quello che sul suo viso non smette mai di esserci un sorriso.