- Due calci al pallone
Oh, Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo?
Romeo Benetti, in settimana allevava canarini e la domenica faceva collezione di tibie
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Quando i numeri contavano qualcosa
Se non ti perdi un solo spettacolo a teatro, che sia a Milano agli Arcimboldi o al Sociale in Città Alta, il nome Romeo ti evocherà Giulietta e la loro struggente storia d’amore. Se invece, oltre alle opere del bardo di Stratford-upon-Avon, ti nutri pure delle commedie e delle tragedie che si recitano su un palcoscenico verde e rettangolare, allora per te di Romeo ce n’è uno solo: Romeo Benetti. Certo, devi essere nato qualche anno fa.
Prima dell’avvento delle maglie personalizzate, il numero sulla schiena indicava il ruolo in campo di ogni giocatore. Il portiere era il solo a possedere il numero 1. Il terzino destro e quello sinistro si accaparravano rispettivamente il 2 e il 3. E così via, fino all’11 dell’ala sinistra. Dal 12 in su, invece, erano appannaggio degli uomini accomodati in panchina. Tranne il 14, che sua maestà Johan Cruijff portò con disinvoltura all’Ajax e con la nazionale olandese ritenendolo il suo portafortuna.
Era spontaneo innamorarsi dei numeri 10 – Rivera, Pelé e più tardi Maradona e Messi – esseri ultraterreni baciati dal genio e dall’ispirazione. Oppure invaghirsi dei goleador e amare il 9 di Van Basten o l’11 di Rummenigge e Gigi Riva. Qualche rara volta a stregarti era il 7, la guizzante e imprendibile ala destra. Su tutti, il brasiliano Garrincha, anche se sono davvero in pochi, per ragioni anagrafiche, ad averlo visto giocare.
A menar fendenti con la sciabola, o più frequentemente con la mazza, in mezzo al campo spiccava il numero 8, un ibrido di fosforo e polmoni. Sprazzi di genialità ereditati dal numero 10 fusi con l’orgoglio operaio di chi indossava il numero 4, gente munita di pala e piccone che conduceva quella vita da mediano elogiata da Luciano Ligabue.
Il corpo e l’anima della squadra
Date queste premesse, era piuttosto insolito designare a proprio idolo un numero 8. Ma nemmeno così improbabile, visto che a me è successo.
Perdere la testa per i colori rossoneri fu la cosa più naturale del mondo dopo aver visto giocare Gianni Rivera, fuoriclasse dalla corsa elegante e il tocco sopraffino a cui tutti i compagni davano il pallone aspettando qualche magia. Seduto sui ruvidi gradoni di San Siro accanto a mio padre, iniziai ad ammirare anche il nostro gagliardo numero 8: Romeo Benetti. Papà non mancava mai di farmi notare quanta sostanza ci fosse nel suo gioco. Con la sua inesauribile energia, quel biondo e roccioso centrocampista era il corpo e l’anima della squadra. E non ci mise molto a entrarmi nel cuore.
“Il Benetti” – come lo chiamava il “Paron”, Nereo Rocco – era un uomo singolare. Nato ad Albaredo d’Adige alla fine della Seconda Guerra Mondiale, era l’ultimo di otto fratelli. I genitori lo chiamarono Romeo e Giulietta la sorella gemella. La famiglia si trasferì presto a Bolzano e Romeo fu spedito in collegio a Venezia, dove rimase fino ai 16 anni.
Il più delle volte, prima di considerare la strada del professionismo, i calciatori del passato si cercavano un’occupazione. La famiglia, specie se numerosa, aveva bisogno del loro contributo. E poi non vi era alcuna certezza sul fatto che il pallone potesse darti da vivere. Così, nei primi tempi, Romeo fece il tipografo.
Abbandonati presto inchiostri e rotative, gli bastarono pochi anni per farsi notare dai grandi club di Serie A. Il suo gioco era caratterizzato da un’aggressività fuori dal comune e “Picchia, Romeo!” divenne un coro cantato a squarciagola dai supporter delle squadre di cui indossò la maglia.
Gli vennero affibbiati gli epiteti più fantasiosi, a volte crudeli pur se azzeccati: Killer, Roccia, Panzer, Tigre. Su di lui la letteratura calcistica dette il meglio di sé nel trovare appellativi originali e nuove definizioni al suo “stile” di gioco.
“Picchia Romeo!” Divenne un coro cantato a squarciagola dai supporter delle squadre di cui indossò la maglia
Il calcio non è uno sport per signorine
Il Gran Maestro della cronaca sportiva italiana, il padano di origine controllata Giovanni Brera fu Carlo, lo soprannominò “Maultier”, come i cingolati in dote all’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale. Mai banale nelle sue considerazioni, Gigi Garanzini coniò per lui una frase che divenne di culto: “Benetti in settimana allevava canarini e la domenica faceva collezione di tibie”. Lo scrittore pugliese Carlo Vulpio, invece, scrisse: “Romeo Benetti, grande mediano di spinta del Milan, della Juve e della Nazionale, al quale sono grati molti ortopedici”. Fu però un altro grande del giornalismo italiano, Mario Sconcerti, a definirlo alla perfezione: “Benetti era un giocatore duro, completo. Uno strano tipo di cattivo. Non era scorretto, prendeva e dava, solo che il suo temperamento gli permetteva di dare molto e di prendere meno”.
Poiché vi è una profonda differenza tra carattere e temperamento. Puoi allevare con tenerezza i tuoi canarini durante la settimana e, allo stesso tempo, sfoderare gli artigli in un campo da calcio la domenica e il mercoledì. Quando il Campionato e le Coppe erano confinati in quei due giorni.
Romeo Benetti fu un totem della mia giovinezza. Malgrado l’innegabile durezza dei suoi interventi, in vent’anni di battaglie sui campi di gioco di tutto il mondo non ricevette mai un cartellino rosso e nemmeno un doppio giallo. Nemmeno in quel Milan Bologna del 1971, dove in un eccesso di furore agonistico mise involontariamente fine alla carriera di un avversario. Un fallo di gioco, scambiato inizialmente dall’arbitro per una simulazione del giocatore in maglia rossoblù, per cui Romeo venne addirittura denunciato alla Procura di Milano.
Del resto, Benetti non faceva nulla per sfatare i luoghi comuni. Ricordo bene quella sua dichiarazione, riproposta in più di un’occasione: “Il calcio non è uno sport per signorine, è un gioco di contatto”. Poche parole, a volte scelte male, condite da un atteggiamento sprezzante, da vero duro, rimarcato dai folti baffi e dalla pelle del viso segnata dai souvenir dall’acne giovanile, che lo facevano sembrare uno dei cattivi dei film di Sergio Leone.
In lui albergavano la “garra charrua”, che ancora oggi distingue ogni “futbolista” uruguagio, e quello spirito indomito e un po’ selvaggio dei centrocampisti britannici della sua epoca, oggi stemperato dal divismo e dalle sterline della Premier League.
Nel 2008, il popolare tabloid inglese “Sun” stilò una classifica dei giocatori più “cattivi” di tutti i tempi posizionandolo al quarto posto. Invitato a commentare questa graduatoria, Romeo rispose con velata ironia: “Perché solo quarto? Meritavo il primo posto!”.
Era uno sporco lavoro e qualcuno doveva pur farlo. Romeo Benetti rappresentava alla perfezione il “bastardo senza gloria” disinteressato alla propria redenzione e ancor meno a ricevere applausi.
Nei film, come nella vita, ci sono gli eroi e gli antieroi. Quelli che cercano le luci della ribalta e quelli che, una volta portata a termine con successo la loro missione, tornano agli amati canarini saziandoli di miglio e di deliziosi ossi di seppia per rinforzarne il becco.
Adesso Romeo vive in Liguria, sulle dolci colline che dall’alto proteggono Chiavari, e da lì osserva il mare da lontano. Lui non è certo il tipo da mettersi il costume e andare a farsi una nuotata tra gli schiamazzi dei bagnanti, preferisce andare in piazza a bere un caffè, possibilmente corretto grappa, con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, di chi è in pace con la propria coscienza.
Per Benetti la notorietà è stata sempre un fastidio. Un male inevitabile a cui, se possibile, era il caso di sottrarsi. Ricordo bene un ammirevole quanto velleitario tentativo di Alfredo Pigna, giornalista della Rai apprezzato per la sua sobrietà, di intervistarlo a Milanello.
Nonostante Pigna avesse chiesto, e ottenuto, l’aiuto di due figure carismatiche come Nereo Rocco e Gianni Rivera, non riuscì nemmeno a iniziare la conversazione. Rivera cercò di convincere Romeo in tutti i modi, senza successo, ma fu indimenticabile la frase del “Paron”, pronunciata a braccia aperte e in dialetto veneto, rivolta a uno sconfortato Alfredo Pigna: “Xe el Benetti!”.